I “Quant'altro” e la miniaturizzazione della lingua italiana.
Qualche giorno fa mi sono trovato
nel bel mezzo di un meeting loop.
Con questa anglofila espressione mi
riferisco a quelle situazioni, ahimè sempre più comuni per un popolo che ama
parlare molto e ascoltare poco, in cui si passa tutta la giornata intrappolati
in riunioni per lo più inutili e prive di qualsiasi possibile risultato.
Situazioni in cui tutti sanno quello che andrebbe fatto, ma nessuno osa
dichiararlo, tanto meno metterlo in pratica.
La responsabilità è una brutta
bestia, soprattutto per i capi che, con abnegazione e marmorea
perseveranza, si limitano a schivarla e attendere.
In queste situazioni la necessità di sopravvivere prende il sopravvento e porta i malcapitati coinvolti nel meeting
loop a concentrarsi sul giorno successivo nella speranza in un domani
migliore che Leopardi giustamente ridimensionava e a cui, invece, noi italiani
siamo comodamente assuefatti.
Se però si volesse stoicamente
concentrarsi sull'altrui eloquio, non per decodificarne il contenuto, ma per
una piacevole e desueta analisi del dominio sintattico dei partecipanti al
meeting in questione, si scoprirebbe che esso è fatto al 90% di emotività e
ripetitività a discapito dei più necessari nessi causali fra le preposizioni.
Sareste costretti allora a enfatizzare i vezzi linguistici dei vostri colleghi
di meeting loop, scoprendo che dal gergo politico (tanto per prendere a
riferimento un linguaggio odiato e stigmatizzato dal cittadino) al gergo
collettivo il passo è compiuto.
Correva l’anno 2009, quando un
profetico Paolo Di Stefano, da acuto osservatore dell’evoluzione linguistica
nel nostro paese, dalle pagine de Il Corriere della Sera ci metteva in
guardia dal virus
del “quant'altro”, locuzione invasiva e onnipresente, che dopo un po’
inizia a scavare nelle vostre orecchie come se volesse sottrarvi ogni altro
fonema. E allora proverete a contarli questi “quant'altro”: dieci, quindici, ventitré, trentadue e non sarete neanche al giro di boa del vostro meeting
loop. Scoprendo poi che ognuno lo usa a modo suo, a significare “eccetera”,
ma anche a sostituire altre parole, dal “quant'altro” risucchiate e dalla mente
dimenticate, fino a conglobare in sé intere preposizioni e probabilmente il
senso stesso di tutto quel parlare.
Immaginerete allora di vedere i
vostri figli fra una decina d’anni, a scuola, con davanti un Tablet ultra-leggero e ultra-luminoso (anche sugli “ultra” ci sarebbe da parlare…) che
forse sarà morbido e assumerà qualsiasi forma, come il pongo, ma che dentro
avrà un'unica parola: “quant'altro”. Locuzione sì grande, da poter immaginare incluso
in essa ciò che si vuole. Così non ci saranno alunni e professori incapaci,
perché per qualsiasi domanda esisterà una sola e confortevole risposta. “Qual
è il quant'altro del quant'altro?” “Quant'altro.” Risponderanno i
vostri figli in coro, davanti alla domanda del professore. Esatto.
“Ieri hai fatto quello che
dovevi e quant'altro?” “Quant'altro.” Risponderete voi al vostro
capo. Esatto.
“Mi desideri e quant'altro?”
“Quant'altro!” Esclamerete con occhi vogliosi al vostro partner. Esatto
ancora e quant'altro.
Nella prospettiva del confronto con certe marmoree perseveranze, con i vertiginosi meeting loop e _quant'altro_, mi gusto (anche) il riferimento virale, davvero azzeccato.
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