Eccomi. La ricerca della felicità secondo Jonathan Safran Foer
Dopo undici anni di attesa è uscito a
settembre in Italia (qualche giorno prima che in USA) il terzo romanzo di
Jonathan Safran Foer: Eccomi.
Urla, scalpiccii, mani che battono
furiose. Le tavole del teatro milanese Franco Parenti rimbombano all’arrivo
dell’autore in una delle tappe italiane del tour promozionale organizzato dal
suo storico editore (Guanda), come se fossimo all’Albert Hall a Londra e non
volessimo proprio lasciare andare l’orchestra che conosciamo e ci ha deliziati
per ore. All’unisono battiamo un piede contro il legno del pavimento in un
plotone di entusiasmo che sbriciola ogni resistenza. «Eccoci», sembriamo dire,
mentre ci giriamo a osservare un uomo magro, ex ‘enfant prodige’ della
letteratura statunitense, oggi scrittore maturo, che passa velocemente in mezzo
a una piccola folla di lettori devoti, come se cercasse qualcosa in terra con
quegli occhiali d’osso fin troppo tondi e non fosse ancora a suo agio con la
barba (ma c’è ancora qualche uomo che osa mostrarsi in pubblico senza?) che
solo in parte riesce a convincerci che Jonathan Safran Foer è alle soglie dei
40 anni (li compirà il prossimo febbraio).
Divenuto famoso, all’età di 25 anni,
per il suo romanzo di esordio, Ogni cosa è illuminata, storia
autobiografica di un ragazzo ebreo americano che parte per l’Ucraina alla
ricerca della donna che salvò suo nonno dalla deportazioni naziste, donando
così a lui un’opportunità di vita, Jonathan Safran Foer ha dimostrato, fin
dagli esordi, di cercare l’eccezionale nella vita che gli passa accanto, che sia
quella di suo nonno o di un ragazzino di nove anni alla ricerca di un modo per
superare il dolore per la morte del padre (l’Oskar Schell di Molto forte
incredibilmente vicino del 2005). Un eccezionale che ha bisogno di
irrompere nella vita grazie a una decisione inattesa, che a prima vista può
sembrare insensata, senza possibilità di risolvere i problemi di chi l’ha presa,
ma che, alla fine, conquista il lettore proprio grazie alla sua tenacia
disarmante.
Con Eccomi, Safran Foer non
cambia territorio di caccia emotivo, ma prospettiva. Ci racconta la storia di
una famiglia ebrea americana (Jacob, Julia e i loro tre figli) in cui è l’oggi a interessare l’autore. Un oggi in
cui non viene messo in atto alcun gesto fuori dagli schemi, un luogo dove
l’eccezionale si muove dentro a ogni attimo in cui questo gruppo eterogeneo di
individui tenta di trovare una ragione per rimanere insieme. Questo cambio di
approccio rispetto ai romanzi precedenti, ha effetti sul ritmo e
sull’attenzione ai dettagli di Eccomi, il primo rallenta, la seconda si
moltiplica nelle mani di un narratore onnisciente, che condivide con il lettore
ogni suo dubbio sui pensieri e le azioni che muovono i personaggi, come se
volesse farci vedere non solo la sua opera, ma anche l’impalcatura e gli
strumenti che ha usato per realizzarla. Safran Foer passa dalla descrizione dei
segreti della mente di un personaggio all’altro, trasformando ogni sospiro in
un baratro di attese e piccole ripicche, fino a farci arrivare al punto in cui
non si è più disponibili a fare due chiacchiere con se stessi. E allora Eccomi
diventa un libro sulla fuga da se stessi, come ci racconta l’autore: «Il
libro è un sommarsi e un incrociarsi di temi politici, sociali, emozionali, ma
non è un libro sull’ebraismo, né su una famiglia che vive oggi a Washington. È
la storia di esseri umani che si muovono alla ricerca di un senso. Grazie a
loro, possiamo osservare come due persone si lavano i denti e facendolo hanno
spesso le conversazioni più importanti della giornata o come una persona
rimanga a fissarsi a lungo a uno specchio senza alcuna ragione, ma con un mondo
dentro da descrivere. Quotidianità che i protagonisti vivono come un intralcio
per arrivare alla felicità cui tendono. Ecco perché il romanzo si intitola Here
I am (Eccomi), loro non si sentono mai pronti a dirlo, scappano dalla
quotidianità per puntare a una vita diversa, ma al contempo non sono in grado
di capire qual è la vita che vorrebbero vivere rispetto a quella che vivono».
Jacob e Julia sono ancora una coppia unita, una coppia che si ama, una coppia che, come tantissime altre, appare
dall’esterno capace di fare bene tante cose tutte insieme, gestendo
l’equilibrio precario dei desideri di 5 individualità. Efficienti. Lo sono non
v’è dubbio. Ma l’autore ci suggerisce che tanta efficienza esterna ha
minimizzato quella interna, perché per essere così bravi a gestire, incastrare,
ascoltare, controllare, educare, lavorare e amministrare, Jacob e Julia devono
smettere di concentrarsi sui bisogni della loro anima. Questi vengono smussati,
giorno dopo giorno, dalla burocratica e appiattente quotidianità, che sembra
porre continui micro problemi da gestire, solo per divorare le persone che con
loro si confrontano. Persone che non sono stupide e perciò si accorgono che
qualcosa si sta sgretolando, ma non sono disposte ad ammetterlo, perché
vorrebbe dire arrendersi, dichiarare che tutto quello che si è fatto, tutto
quello a cui si è rinunciato in nome della famiglia è stato un inutile spreco. Così
si rintanano in se stessi e aspettano qualcosa che li porti via, soffrendo. «La
distanza che separa l’ammettere dall’accettare è la depressione». Mai frase fu
più dolorosamente vera.
Quando ha cominciato a lavorare a
questo romanzo Jonathan Safran Foer voleva essere fiero del risultato: «La cosa più difficile dello scrivere
non è tanto mettere insieme frasi di impatto, creare un flusso narrativo con un
buon ritmo o dei personaggi credibili, tutti possono riuscirci se si impegnano
abbastanza. La sfida è scrivere un libro di cui essere fiero, un libro che
possa mantenere vivo l’interesse per tanto tempo». Se l’obiettivo
è stato raggiunto ce lo diranno i lettori, non solo i contemporanei, ma quelli
che verranno; l’autore ha detto di essere orgoglioso del risultato e non
possiamo biasimarlo. Safran Foer riesce a rendere con grande naturalezza i
dialoghi, regalandoci personaggi solidi, in cui chiunque abbia avuto una
famiglia come figlio o ancor meglio come genitore, potrà ritrovarsi e i
fanatici (io sono fra loro) di frasi che illuminano la pagina e accendono la
mente, non rimarranno delusi. Certo, l’inizio stenta un po’ a coinvolgere il
lettore, anche per la presenza, a volte ingombrante, del narratore onnisciente
che preferisce raccontarci subito cosa hanno in testa i personaggi, piuttosto
che farcelo scoprire. Così come alcuni temi del romanzo decisamente suggestivi
(un esempio è il contrasto fra il ‘dentro’ delle cose e delle persone e il loro
‘fuori’) tendono ad essere ripresi troppo spesso nel corso della narrazione
indebolendone l’effetto.
Ma la valutazione finale, quella che
conta davvero, sta ai lettori, quindi forza, questo è un libro a cui
rispondere: “Eccomi!”. E se alla fine non sarete d’accordo con tutte le scelte
del suo autore e dei suoi personaggi, non le avrete capite o giustificate fino
in fondo, sarete comunque soddisfatti perché, come ci ricorda Jonathan Safran
Foer: «se capisci tutto devi essere male informato».
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