Mi chiamo Lucy Barton di Elizabeth Strout: perché non è assolutamente possibile credere ai propri ricordi


Sono convinto che quando raccontiamo i viaggi che abbiamo fatto, non parliamo di luoghi, monumenti, cibo, shopping e strade, ma di persone. Amici con cui condividiamo ogni spostamento del nostro animo o sconosciuti che ci sono passati accanto in una notte calviniana dagli esiti incerti o dickensiana dalle strade oscure e dal fumo denso che si avvinghia ai polmoni. Il loro incrociarci genera quel ricordo che poi modellerà le nostre vite, trasformandoci; come un cubo di marmo da cui lo scultore stacca uno strato dopo l’altro alla ricerca della forma perfetta. Quando nasciamo siamo quel cubo e saranno le persone che incontreremo a darci la forma definitiva, che ci piaccia o no.



Di questa idea sembra essere convinta anche Elizabeth Strout che con il suo ultimo romanzo Mi chiamo Lucy Barton (tradotto da Susanna Bassi per Einaudi) ci fa entrare in un frammento della vita della sua protagonista (Lucy) che racconta, in prima persona, un paio di mesi trascorsi in ospedale negli anni ’80. Un viaggio non desiderato, un viaggio incerto, da cui Lucy estrarrà per il lettore alcuni ricordi. Non sono ricordi felici, ma sono quelli più intimi, quelli che i personaggi della Strout sono così abili a nascondere agli altri e al contempo a vivisezionare continuamente per se stessi. Ricordi che rimbalzano su vite comuni e ben organizzate, come biglie d’acciaio in un flipper. Dall’esterno sembra che tutto proceda regolarmente, ma dentro ci si fa male: «Ci sono momenti in cui, all’improvviso, mentre percorro un marciapiede assolato, o guardo la chioma di un albero piegata dal vento, mi sento invadere dalla consapevolezza di un buio talmente abissale che potrei urlare, e allora entro in un negozio di vestiti e mi metto a chiacchierare con una sconosciuta. Deve essere il sistema che adottiamo quasi tutti per muoverci nel mondo, sapendo e non sapendo, infestati da ricordi che non possono assolutamente essere veri». I ricordi di Lucy non possono essere veri, perché se lo fossero, non potrebbe più parlare con una madre che non riesce a dire di volerle bene, nemmeno quando Lucy è in ospedale, nemmeno quando diventa la sua «bestiolina». Non ci riesce perché da piccola Lucy era abbandonata a se stessa o veniva chiusa in un camper buio per punizione, pregando e graffiando per uscire, come una bestiolina. E quando suo padre la liberava era disposta a tutto pur di sentire una carezza dietro la nuca, dove piace tanto ai cani e ai gatti, dove può piacere tanto anche a una bambina.

Elizabeth Strout
Mi chiamo Lucy Barton è una storia senza una vera e propria trama, non ne ha bisogno perché non racconta un evento, una scelta o una vita, ma una sensazione. I ricordi di Lucy si accalcano, come se volessero rubarsi la scena, davanti a un lettore che non può staccarsi dalla prosa limpida ed essenziale di Elizabeth Strout, vivendo nella stessa bolla di ricordi e solitudine di cui si nutre la protagonista: «quello della solitudine era il primo sapore che avevo assaggiato nella vita e non se andava più, nascosto dalle pieghe della bocca, a ricordarmi». In questa soffice malinconia vive anche un altro personaggio fondante del romanzo, una scrittrice: Sarah Payne. Maestra e dispensatrice di suggerimenti preziosi per un romanziere in erba (Lucy stessa diventerà una scrittrice), Sarah è il salvacondotto della protagonista per superare i sensi di colpa che ci stringiamo al petto come fossero la cosa più preziosa che abbiamo, ciò che ci rappresenta.


Elizabeth Strout non fornisce alcuna risposta alle domande insidiose che il nostro io ci pone durante la lettura, non potrebbe fare altrimenti, sta a noi capire se il libro che ci troviamo fra le mani è quello che aspettavamo da mesi, forse da anni, per togliere qualche biglia d’acciaio dal nostro flipper. «Esiste un incessante giudizio in questo mondo: come facciamo a garantire che non ci sentiamo inferiori a un altro?»


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