Bob Dylan, il Nobel e la zattera che tutti (segretamente) aspettiamo


Chissà cosa avrebbe pensato Alfred Bernhard Nobel nello scoprire che 120 anni dopo la sua morte, il premio che prende il suo nome sarebbe diventato un evento importante per i bookmaker di tutto il mondo. Molti mesi prima della scelta dei vincitori, che avviene fra settembre e ottobre di ogni anno, con ulteriore strascico a dicembre per il Nobel per la pace, si inizia a scommettere su chi vincerà nelle varie categorie previste dal premio, a cominciare dalla Letteratura. Così le liste dei possibili vincitori, che un tempo servivano a scaldare conversazioni da salotto, oggi animano per mesi la Rete, fino a diventare, a pochi giorni dalla proclamazione, onnipresenti. 


1 a 16, 1 a 4, 1 a 60, autori come Don DeLillo, Philip Roth e Haruki Murakami, vengono spolverati a ogni edizione e le loro quotazioni lentamente e prevedibilmente salgano, man mano che il gran giorno si avvicina. Ancor di più se, come è avvenuto quest’anno, la giuria del premio è tutt’altro che concorde nella scelta da compiere, tanto da far slittare di una settimana la proclamazione del vincitore. In tutti i premi i favoriti non gongolano, perché sanno che difficilmente il pronostico troverà conferma, il Nobel rende ancora più vera questa convinzione, viste anche le scelte fatte dai 18 membri dell’Accademia Svedese negli scorsi anni (la giornalista ucraina Svetlana Alexievich nel 2015, lo scrittore francese Patrick Modiano nel 2014, il poeta svedese Tomas Tranströmer nel 2011) ben lontane dalle previsioni dei bookmaker (per la fortuna delle loro tasche) e dettate da un complesso e lungo cerimoniale selettivo. 



Così ecco spuntare dai bussolotti svedesi il nome di Bob Dylan, il primo cantautore a vincere il prestigioso premio, in controtendenza con le ultime scelte dell’accademia svedese che negli anni ha avuto il merito di fornire ad autori poco conosciuti al di fuori del loro confine (geografico o stilistico) una ribalta globale che scrittori come Roth e Haruki già posseggono. Dylan è già uno degli autori musicali più conosciuti al mondo, riuscendo a richiamare a sé proseliti da tre diverse generazioni. Lo ascoltavano i miei genitori, l’ho ascoltato io, lo ascoltano i ventenni di oggi e fra un po’ toccherà anche a mia figlia di nove anni ascoltare le sue canzoni-poesie, narrate con quella pronuncia strozzata e spesso incomprensibile (persino per gli americani) che nasconde dentro di sé sempre una storia difficile. Un’immagine che preferiremmo ignorare e che Dylan ci sistema proprio in mezzo alla strada emotiva che percorriamo in ogni momento della nostra vita, anche se stiamo correndo a prendere la metro in una giornata piovosa e cerchiamo di stordirci con passaggi veloci dei nostri polpastrelli sullo schermo dello smartphone. Sbattiamo contro musica e parole. Finiamo per terra e mentre ci stiamo rialzando, controllando che lo schermo dello smartphone non sia graffiato, siamo costretti a fermarci e a guardarci attorno. 


Dario Fo (altro premio Nobel per la letteratura ‘imprevisto’), che ha lasciato questo palcoscenico per ‘dare fastidio’ su uno assai più ampio pochi giorni fa, sosteneva che la ragione per scrivere sta proprio in questo: offrire una vista diversa su una delle tante certezze, di giudizio o di merito, cui è più rassicurante abbandonarci finché il Tom Sawyer di turno, scrittore, musicista o attore che sia, ci travolgerà con la sua zattera e niente sarà più come prima.


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