Valentino Zeichen e la morte della sensibilità?

Sensibilità, da qui partiva Valentino Zeichen, «poeta occasionale», per raccontare se stesso in un’intervista a Repubblica del 2014 e da qui vorrei partire per ricordare, a distanza di qualche settimana dalla sua scomparsa, lo scrittore e l’uomo che ha fatto della difesa di questo modo di percepire la realtà, lontano dal cappotto di disponibilità, educazione e solidarietà con cui sarebbe bene coprire le nostre vergogne emotive, la sua personale battaglia. Siamo già molto lontani dal clamore e dalle dichiarazioni che si sono accese per la sua malattia prima e per la sua morte poi, clamore che si è consumato come una miccia di una bomba silenziosa che esplode assorbendo le parole che andavano spese per il poeta scomparso e che pure molti avevano smarrito con facilità quando l’uomo era ancora vivo. 


Quanto materiale per il poeta che aveva fatto dell’ascolto una forma d’arte, facendo sua una delle regole più importanti di uno scrittore: ascoltare, ascoltare sempre, poiché in ogni battuta, gesto o sua mancanza si può nascondere il personaggio o il verso perfetto. Appassionato lettore di Shakespeare: «Come è possibile che un inglese di quattrocento anni fa possa produrre quel ventaglio di sentimenti, conflitti e grandi riflessioni? […] lui, con una lingua seicentesca, in formazione, riesce a dire un mondo. Ecco la meraviglia che commuove», Zeichen era alla ricerca di un cantuccio in cui trovare tracce di quella sensibilità, oggi troppo spesso schiacciata dall’arroganza o dal sentimentalismo, sensibilità che provocatoriamente aveva dichiarato morta, evitata come la peste, quasi fosse una forma di pazzia, una malattia da cui guarire, da relegare nell’angolo più penoso delle sensazioni umane. Una sensibilità a cui Valentino Zeichen si era avvicinato per la prima volta in un luogo che penseremmo anni luce lontano da questa ‘speciale deformazione’ dell’animo umano: un riformatorio. Era qui che finì un Valentino adolescente, dopo aver provato l’esperienza dei campi profughi (a causa del passaggio di Fiume, dove era nato Zeichen, dall’Italia alla Jugoslavia dopo la seconda guerra mondiale), essere diventato orfano di madre a sette anni e aver vissuto nelle stalle di Villa Borghese a Roma, di cui il padre era uno dei giardinieri. Si trovò al riformatorio per decisione paterna, una casa di correzione a Firenze. 3 anni in cui Zeichen studiò per il diploma di perito chimico, 3 anni in cui imparò a guardarsi le spalle e a sopravvivere, 3 anni in cui scoprì che i suoi unici amici erano racchiusi nei libri della biblioteca del riformatorio. Senza alcun riferimento, si fece guidare dal suo istinto e fu allora che scoprì la sua sensibilità. Salgari, Tolstoj, Cechov, Balzac, nelle loro parole e nei loro personaggi, Zeichen scoprì inattese via di fuga e sensazioni che non aveva mai provato. Annusò i primi palpiti di quel «tanto di follia profonda senza la quale non si fa poesia»


Poi la libertà, anche quella fisica, l’uscita dal riformatorio, la scuola di recitazione, la consegna di vangeli alle parrocchie di Roma per guadagnare qualcosa, i primi incontri con autori e artisti di una Roma che si stava per trasferire dalla periferia dell’Europa al centro della Dolce Vita.  Da lì le prime pubblicazioni, la decisione di essere un poeta senza compromessi o meglio con i compromessi che lui era disposto ad accettare. E questo volle dire non fare la scelta che in molti suoi pari avevano compiuto: un lavoro. Perché per essere scrittori, soprattutto scrittori ‘sensibili’, bisogna dividersi in due. Un lavoro altro e una vita altra da cui prendere il sostentamento per la prima vita e il primo lavoro: la scrittura. La lista di chi ha fatto questa dolorosa scelta è lunga e sofferta. Ma Valentino Zeichen, ce lo ricorda Ferdinando Camon in un articolo apparso su Avvenire, percorse una strada diversa. Valentino decise che dei soldi non si sarebbe preoccupato, che non avrebbe impiegato il suo tempo per niente altro che non fosse la sua poesia. Niente vita altra per lui e niente soldi.  E questo ha voluto dire lasciare che la sua sensibilità non si rimpicciolisse schiacciata dalle rate del mutuo o dalle discussioni necessarie a scegliere se comprarsi un vestito nuovo o l’ultimo smart-phone al proprio figlio. Ma ha voluto anche dire conoscere la fame, l’umiliazione nel vedere dileguarsi chi, giunto davanti alla ‘baracca’ sulla Flaminia in cui viveva il poeta, aveva deciso che la  solidità di una casa in mattoni aveva il sopravvento sul piacere della mente al cospetto di un giocoliere della parola. 


A differenza di Camon, non ho la certezza su quale sia la via più congeniale per preservare la nostra sensibilità, né su quale sia la più sofferta per uno scrittore. Penso al dolore di Kafka bloccato in un ufficio di un’assicurazione per buona parte delle sue giornate, immaginando ciò che non stava scrivendo al suo scrittoio, solo per garantirsi il pane e quello stesso scrittoio.  Concordo con Zeichen quanto cita il poeta Kenneth Patchen: «da qui a qualche anno l’erba crescerà sulle nostre tombe. Siamo a cavallo del divenire. Poi, a un tratto, verremo disarcionati», tutto sta a scegliere il divenire con minor spine sulla sella e qui la sensibilità e la soggettività di ognuno regna sovrana.



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