La vecchiaia? La vetta della vita, parola di Lidia Ravera

Leggendo Il terzo tempo, il nuovo romanzo di Lidia Ravera, edito da Bompiani, mi è tornato alla memoria un passo di Furore di Steinbeck. Mentre la martoriata famiglia Joad si sposta sulla Route 66 dall’est all’ovest alla ricerca di una possibilità di vita migliore, muore il nonno. I familiari, ridotti alla fame, non sanno come fare perché non hanno i soldi per farlo seppellire. Alla fine troveranno una persona che dirà poche parole per salutare l’estinto. Attraverso questo personaggio minore Steinbeck ci ricorda che i problemi, quelli veri, restano ai vivi, che, a differenza del nonno Joad, non hanno traiettorie prestabilite da percorrere per arrivare al traguardo che accomuna tutti gli esseri umani. Ne Il terzo tempo Lidia Ravera, attraverso la protagonista Costanza, signora âgée che eredita un ex-convento e prova a trasformarlo in una comune, riprende questo tema, provando a dimostrare che con il passare degli anni la visibilità resta assai ridotta e le ‘certezze’ sulla terza età, cui spesso ci aggrappiamo, sono solo stereotipi da ribaltare.


La prima domanda che vorrei fare all’autrice è come nasce l’idea e l’urgenza per questo libro.
Questo è il terzo romanzo di una trilogia sul tema della vecchiaia, dopo Piangi pure e Gli scaduti. Chiaramente c’è l’urgenza che ho sempre sentito, fin dal mio primo romanzo (era il 1976), di occuparmi del trascorrere del tempo. Penso sia il grande tema per chi nasce, come me, con l’angoscia del limite della vita e lo sente sempre presente fin dall’infanzia o dall’adolescenza. Crescere e vivere con questo tipo di ‘patologia’ sarebbe stato intollerabile se io non avessi provato a raccontarlo. Ho scritto Ammazzare il tempo che avevo ventisei anni, Maledetta gioventù quando ero una quarantenne e Eterna ragazza quando ero una cinquantenne. Ho bisogno della scrittura per indagare questa condizione umana che ho sempre trovato intollerabile, quindi l’urgenza non finisce mai, finirà con me. I miei lettori avranno reportage anche dalla quarta età e forse anche dal finire della mia vita. Tutte le mie protagoniste hanno seguito questa ricerca. 
Costanza ha 64 anni, i suoi genitori sono morti e si è appena separata dal compagno di una vita (Dom) per evitare la crudeltà della vecchiaia («quando sei vecchia ogni giorno stai peggio del giorno prima») e trovare un nuovo progetto di vita. Eppure, quando si ritrova a passeggiare da sola nell’ex-convento che le ha lasciato in eredità suo padre, «una dimora sontuosa negli spazi e nuda negli arredi», sente che la serenità che imporrebbe quel luogo non le basta, anzi la atterrisce. Ha bisogno di un progetto concreto a cui aggrapparsi. Per questo proverà la strada della comune per «gente vecchia». Quanto della forza rinnovatrice di Lidia Ravera è confluita in Costanza e cosa invece la distingue da questo personaggio?
Io e Costanza condividiamo la volontà di continuare a imparare, per continuare a imparare bisogna fare attenzione, per fare attenzione bisogna essere curiosi e quindi amare la vita. In questo siamo molto simili, quando smetti di imparare smetti di vivere, imparare cose nuove è un modo per tenere lontano la morte. Ci somigliamo anche perché siamo delle pasticcione. Costanza non è granitica nelle sue decisioni, cambia idea ogni tre capitoli, oscillando fra momenti di disperazione e assoluta certezza, senza perdere mai la generosità di contraddirsi pur di andare avanti. Come tutti i personaggi dei miei romanzi, ci ho messo dentro qualcosa di mio, ma Costanza è prima di tutto una persona. Alquanto insistente direi. Si è piazzata nella mia vita e non se ne va più, impartendomi lezioni continuamente. Raccontare la sua storia è stato come fare una passeggiata in montagna, è in salita certo, ma, man mano che sali, vedi qualcosa in più e quando sei sulla vetta vivi un momento entusiasmante. La vecchiaia è un momento entusiasmante della vita, purtroppo viene sterilizzato da stereotipi che impediscono di vedere il panorama complessivo. 


Parlando di stereotipi, un altro tema forte nel libro è l’effetto della vecchiaia a secondo del genere. Costanza invidia gli uomini, la loro licenza di essere brutti, panciuti, scialbi, pelati. La vecchiaia ha ancora due pesi e due misure così distanti?
Sì, alle donne non viene concesso invecchiare, coincidono con la natura e quindi devono essere sempre fresche, mentre gli uomini possono trasformare in fascino l’esperienza, l’ironia, il potere. Un fascino che le donne, anche quelle più giovani, gli riconoscono. Per questo gli uomini invecchiano più serenamente non dovendo perdere tempo a negare lo loro età, mentre le donne spesso cadono sotto i colpi dell’ingiustizia che le vuole fissate alla loro età fertile. Le donne devono essere fresche e giovani, ciò le fa invecchiare male, con dolore. Il vantaggio è che gli uomini che ti guardano quando superi i 60 anni sono davvero pochi, ma quelli che lo fanno sono i migliori, quindi in qualche modo la società ci aiuta a perdere meno tempo a selezionarli. 


Anche lei è caduta in questo stereotipo?
Anch’io ho sentito il disprezzo degli uomini per le donne non più giovani. Ho avuto anche la fortuna di incontrare uomini che cercano ben altro della ‘carne fresca’ in una compagna, ciò non toglie che la mia sensazione sia che la rivoluzione femminista è una rivoluzione interrotta, sarà completa solo quando uomini e donne invecchieranno allo stesso modo, quando anche alle donne sarà consentito di trasformare in fascino la loro esperienza, dimenticando la freschezza che si addice più alle insalate che alle persone.  
Non pensa che oggi assistiamo a un rafforzamento dell’attenzione per l’immagine che prescinde dal genere? Penso a molti uomini che stanno diventando schiavi dell’estetica e della ricerca di un’eterna giovinezza al pari delle donne.
Dilaga la stupidità, il narcisismo, il consumismo, la superficialità. Tutte derive pericolose e preoccupanti. Questo processo che sovrastima il corpo perché teme che dentro non ci sia nulla, prescinde dal genere. Certo se posso perdonare le donne che ricorrono alla chirurgia plastica, perché tartassate per tutta la loro vita dall’immagine della ventitreenne incombente, non riesco a fare lo stesso con gli uomini. A loro non è stato chiesto per secoli di essere ‘belli’, se l’uomo non vuole più approfittare di questo vantaggio la responsabilità è solo sua. 


Quanto tempo ha investito in questo romanzo e quanto è stata sofferta la sua gestazione?
I romanzi hanno bisogno di tempo per maturare dentro lo scrittore attraverso gli anni. Come tutti i romanzi che ho scritto, la prima metà è tutta in salita. Soffri, rinunci, riprendi, non sei sicuro di quello che potresti offrire al lettore, poi all’improvviso arrivi alla fine della salita, hai ‘scollinato’. Da quel momento il romanzo sembra scriversi da sé, sono i personaggi a guidarmi. 
Quindi all’inizio non aveva un’idea precisa della trama del romanzo?
Avevo una situazione in mente. Quella iniziale: non voglio invecchiare in coppia, perché la coppia è declino allo specchio, non voglio invecchiare da sola perché la solitudine mi fa paura. Voglio invecchiare in gruppo. Vado a cercare quel gruppo, se sono d’accordo invecchierò con loro altrimenti ne sceglierò altri. Li sceglierò come si fa con l’equipaggio di una barca. Devono essere pochi, coraggiosi, simpatici e bravi a navigare in una storia che non può avere un lieto fine. Insomma una ricerca. Con la scrittura sono sempre alla ricerca.   
C’è stato un membro dell’equipaggio che l’ha messa in difficoltà durante la traversata de Il terzo tempo?
È stato un buon equipaggio, mi ha subito appoggiato. Forse mi ero messa bene in ascolto. Sono stata attenta a non costruire i santini del ’68. Gli ex-compagni della comune di quando Costanza era ragazza non erano degli eroi, ma delle persone vere. Forse i personaggi più difficili da far vivere sono stati i compagni ritrovati.

Cos’è che le fa dire che il personaggio che ha di fronte è pronto per essere condiviso con il lettore? 
Deve essere reale. Devo poterci parlare e avere con lui un contraddittorio. Deve essere un buon conduttore di narrativa, permettendoti di far emergere la sua storia. Aver vissuto tanto aiuta. Ho incontrato decine di persone, ho fatto centinaia di esperienze, ho letto migliaia di romanzi. La mia vita è sempre stata consacrata alla letteratura e questo, insieme alle esperienze che ho vissuto, mi offre una bisaccia da cui pescare innumerevoli storie dotate di una loro solidità. 
Quali sono i personaggi che ha amato di più nella sua vita?
Ho molto amato Mrs Ramsay il personaggio centrale di Gita al faro di Virginia Woolf. Mi ha insegnato cos’è il femminile, che io ho rifiutato per anni, costruendo la mia identità sulla negazione di mia madre. Quando ho incontrato Mrs Ramsay ho capito che il femminile può essere molto affascinante, avevo incontrato una donna che sapeva cosa voleva dire godere della felicità altrui. Fra i miei personaggi amo molto Costanza e poi Iris di Piangi Pure, una protagonista di 79 anni. Con lei ho davvero lanciato il cuore oltre l’ostacolo, all’epoca della sua ‘creazione’ non avevo ancora sessant’anni. Entrambe sono eroine dell’irrequietezza, come molte delle mie protagoniste. 
C’è un libro che ha tenuto sul comodino mentre scriveva Il terzo tempo
No, non faccio più discesine. Quando ero più giovane le usavo, ora ho smesso, ma è un ottimo strumento per iniziare a scrivere. Basta prendere un libro di un autore che ami molto e leggerne qualche pagina poco prima di iniziare a scrivere. Serve a scaldare il motore e a donarti una fluidità che è un regalo delle pagine che hai letto.
Se dovesse dare un consiglio a uno scrittore esordiente che, come lei, punta alla ricerca nei romanzi, quale gli darebbe?
Farsi aiutare dall’intelligenza degli altri. L’intelligenza degli altri è nei libri e la tua cresce leggendo. L’intelligenza narrativa è una forma di intelligenza particolare, un misto di lucidità e emotività che si trova nei libri degli altri. Devi pensarti come una tazza in cui versare libri su libri, finché il liquido non deborda e scivola giù su un piattino. Su quel piattino c’è il tuo romanzo. Anche prendere appunti è importante, portarsi sempre un quadernino dietro. Andando a lavoro, in viaggio, a fare un passeggiata sotto casa, c’è sempre qualcosa da notare. Se la noti e poi l’annoti, diventa patrimonio della tua vita da cui attingere per la scrittura. Il motivo più vero per fare lo scrittore è che della vita non butti via niente. Tutto serve, tutto diventa utile. 




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