Klimt Experience: perché Andy Warhol aveva ragione


Legenda vuole che la frase profetica di Andy Warhol: «nel futuro tutti saranno famosi per 15 minuti» sia stata suggerita all’artista newyorkese da un suo amico fotografo, mentre Warhol stava commentando la fastidiosa necessità dei suoi contemporanei di doversi sentire a tutti i costi al centro dell’attenzione. A distanza di cinquant’anni, si può dire che la profezia di Warhol si sia avverata, sebbene l’ utilizzo dei social ci abbia portato a ridurre sensibilmente il quadratino di celebrità che ci aveva assegnato il padre della Pop Art. I minuti sono diventati secondi e il recinto di celebrità cui possiamo accedere in maniera ‘democratica’ è misurato dal tempo di scrolling che i milioni di social-umani connessi impiegheranno a far sparire dallo schermo del loro smartphone la nostra esternazione. 
Il momento comunque c’è stato e qualcuno potrebbe anche averne goduto, poiché ‘l’esserci’ è un cancro che divora il nostro spazio e il nostro tempo per regalarlo a icone di persone che conosciamo spesso solo attraverso i ‘like’ che concediamo loro. Vero, eppure il dubbio che la nostra dipendenza da condivisione abbia anche dei lati positivi permane. Dopo tutto era sempre Warhol a dire: «uno è compagnia, due è folla e tre è un party» e chi siamo noi per mettere in discussione la sua parola? 


Per fare un test, ho deciso di partecipare a una delle tante esperienze collettive da ‘protagonista’ di cui la nostra vita sembra essere colma. No, niente condivisione di video su Facebook, lo so, è normale, è divertente ed è facile, ma sono proprio queste tre parole, messe in fila, a rendermi diffidente. La mia sperimentazione si è rivolta alla mostra Klimt Experience al Mudec di Milano. È stata la prima volta che sono andato a vedere una mostra in cui non fosse esposto nemmeno un quadro o un disegno del pittore a cui quella mostra era dedicata. Ma i pubblicitari ci insegnano che sono le assonanze a incantarci, si parlava infatti di ‘experience’ e  non di ‘exhibition’ e quindi niente quadri, chi ha mai parlato di quadri? Bensì ‘esperienza’. 


Entro così in una grande sala quadrata dalle pareti oscure, un palcoscenico chiuso da tutti i lati, immerso nel silenzio. Insieme a me e decine di persone che si guardano intorno perplesse alla ricerca di un senso, entra anche mio figlio di quattro anni che mi sfugge dalle mani in un decimo di secondo per andarsi a sedere beatamente per terra. La musica si anima intorno a noi, lui è già steso a pancia sotto, si regge la testa con i pugni chiusi e aspetta la magia. È come se fosse sul suo letto, a recitare storie di cui sono protagonisti i Pjmasks, strani personaggi a metà fra eroi mascherati e bambini che lui adora. Mi vorrei stendere vicino a lui, ma qualcosa mi frena, anche se i miei compagni di esperienza non sembrano farsi alcun problema. A osservarli dall’alto ho l’impressione di essere a un pic nic al buio. Tutti seduti a gruppetti su un prato di moquette a domandarsi chi doveva portare la ‘pappatoria'. Poi le luci si accendono. Eravamo venuti per Klimt, giusto? I suoi quadri, le sue foto, le strade in cui passeggiava, la Vienna dei primi del ‘900 in cui viveva; senza dimenticare i filosofi, gli architetti, i musicisti con cui Klimt ha condiviso uno dei periodi più interessanti per l’Austria prima del fango delle due guerre. Tutto viene sovrapposto, musicato e condiviso da 30 proiettori laser montati intorno alla stanza. 
Suggestioni sensoriali, diffuse a 360° intorno a noi, trasformano quel luogo neutro in un varco emozionale di cui possiamo usufruire, sentendoci parte di una moltitudine di intenti ancora pulsante a distanza di un secolo. E se alcuni influencer e molti giornalisti hanno gridato allo scandalo per questa iniziativa, bollandola come una ‘commercializzazione dell’arte’, l’idea non è molto diversa da quella di alcuni editori che hanno fatto delle riproduzioni di opere d’arte la ‘killer application’ del loro modello economico (un esempio per tutti quello di Skira). Si deve ancora dimostrare che questo abbia nuociuto alla diffusione della conoscenza e dell’amore per l’arte stessa, senza considerare che le tecnologie di cui oggi disponiamo non si limitano a proporci una riproduzione di un’opera d’arte, ma ci fanno saltare dentro di essa, con un percorso che coinvolge udito (musica che si diffonde nell’ambiente durante la proiezione) e tatto (le immagini si muovono, mutando dimensione e punto di vista intorno allo spettatore, che può così provare a toccarle). 


I nativi digitali per eccellenza, i bambini, l’hanno adorata. Ho osservato mio figlio entrare immediatamente in simbiosi con le immagini, iniziando a rincorrerle per la sala, condividendo la sua meraviglia con gli altri piccoli partecipanti all’esperienza Klimt. Era curioso, gioioso e libero. E non sono emozioni che l’arte dovrebbe suscitare nell’animo di chi l'osserva? 
Uscendo dalla sala, dopo più di un’ora ininterrotta di proiezione, mio figlio mi ha detto: «che bello papino, lo rifacciamo?» È stato in quel momento che ho capito che sarà questa la ‘mostra’ che ricorderà fra quelle in cui l’ho trascinato nella sua infanzia, inginocchiandomi vicino a lui per bisbigliargli all’orecchio la storia magica che si nascondeva (con ampie licenze poetiche)  dietro quel quadro o quella fotografia. E se l’ego paterno ne è uscito un po’ ammaccato, un’idea si è fatta strada nella mia testa: e se fossi stato sempre io a sbagliare? Il lettore in solitaria, il sostenitore dei pochi ma buoni, l’amante dei viaggi per il gusto di osservare in disparte l’altro, il cercatore di domande sempre nuove nelle maglie del silenzio: tutto sbagliato se non lo si mette al centro di un’esperienza da condividere (in fretta). 
Atterrito da questo pensiero ho percorso la strada verso casa, mentre mio figlio mi riproponeva il quesito che più di ogni altro sovrasta la mia attuale vita di genitore: quale dei Pjmasks è il più forte? Secondo mio figlio è Gattoboy, non c’è storia. Io sostengo da tempo Geco, ma cosa direbbe un padre iperconnesso? Dovrei andare a controllare i ‘like’ dei vari personaggi (sono certo che esiste più di una pagina dedicata a questo cartoon)? Condividere subito la domanda con il popolo della Rete? E se questo diventasse il mio unico secondo di celebrità, lo vorrei davvero usare per Geco? 



Lascio a voi la risoluzione del quesito, rassicurato da un’altra massima Andy Warhol: «la vita è troppo breve per prendersela per un errore».     


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