Un innamoramento a prima lettura: La quarta parete di Sorj Chaladon


«Ti amo non per chi sei, ma per chi sono io quando sono con te». È facile estendere la sintesi che Gabriel García Márquez fa dell’amore alla lettura. Se pensiamo ai libri che abbiamo amato, ci potremmo rendere conto che non è la storia in sé o uno dei suoi protagonisti a legarci indissolubilmente a quel titolo, ma ciò che abbiamo provato mentre lo leggevamo. Amiamo i libri non per i libri in sé, ma per chi diventiamo mentre siamo con loro


È quello che mi è accaduto leggendo La quarta parete di Sorj Chaladon (Keller editore), in cui il teatro, con la sua capacità di far apparire dal nulla (e con la stessa naturalezza distruggere) la parete che divide spettatori e attori per la reciproca salvezza mentale e morale, è il protagonista di un romanzo in cui due ragazzi (Georges e Samuel) cercano di mettere in scena l’Antigone di Jean Anouilh tra le strade di una Beirut in guerra


Per realizzare questa folle impresa sarà necessario patteggiare una tregua di poche ore e scegliere un cast che possa dare voce a tutte le fazioni in campo. Antigone assume così le sembianze di una palestinese sunnita, Emone è impersonato da un druso dello Shuf, Creonte, re di Tebe e padre di Emone, da un maronita e le guardie da sciiti. Tutto pur di realizzare il sogno di Samuel (regista greco scappato alla dittatura che «temeva le certezze, non le convinzioni»), diventato missione per Georges (adoratore del teatro, «un gigante che ferisce a morte tutto ciò che colpisce»), pronto a trasformare l’impossibile in normalità pur di realizzare l’idea dell’amico, sua antitetica metà: «Lui l’allegria, io la tristezza. Lui il cuore in primavera, io la gola in autunno».  


La narrazione, ambientata nel 1982 in Libano, è quanto mai attuale, portandoci a osservare un fondale fatto di orrore quotidiano che potrebbe essere quello dell’Afghanistan o dell’Iraq dei nostri giorni. Eppure non riesce a intaccare (ed è qui la scommessa più rischiosa e interessante del romanzo) le convinzioni dei due protagonisti.  Con un ritmo incalzante, costruito su un continuo avanti e indietro dai ricordi di Georges, come se il tempo fosse un elastico che l’autore stringe fra pollice e indice, tendendolo e rilasciandolo a suo piacere, La quarta parete attrae il lettore nelle sue maglie senza possibilità di fuga. Lo fa con parole di seta, davanti alle quali restiamo storditi e compiaciuti, spettatori soddisfatti di un prestigiatore narrativo così bravo da convincerci della normalità del mosaico narrativo che ha costruito per noi.

Sorj Chalandon è stato per trent’anni corrispondente di guerra per Liberation, annotando e distinguendo sul suo taccuino fatti e emozioni: «In Libano il mio taccuino era aperto su due pagine, su quella destra scrivevo i fatti, registrando la realtà come la vedevo; su quella sinistra annotavo invece le emozioni e le reazioni più intime a quello che avevo vissuto. Questo libro (La quarta parete ndc.) raccoglie tutte le pagine sinistre dei miei taccuini» [1]
Dobbiamo essere grati a quelle pagine sinistre, perché ci hanno regalato un libro su cui sarà impossibile per il lettore non sottolineare passi e annotare riflessioni, ponendosi domande sulla quarta parete dietro cui ci nascondiamo per illuderci che la vita che ci scorre davanti non sia anche un frammento della nostra. 


 [1] - estratto da un’intervista a Sorj Chalandon per il Premio Letterario Tiziano Terzani, assegnato nel 2017 a La quarta parete – fonte: Adnkronos. 

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