Bennett e la necessità di essere come gli altri




L’obbligo di allietare il nostro prossimo è sempre in agguato”. È intorno a questa riflessione che si muove il romanzo autobiografico di Alan Bennett Una vita come le altre (Adelphi – traduzione di Mariagrazia Gini), in cui lo scrittore, attore e drammaturgo inglese, famoso per i suoi testi teatrali, trasformati spesso in film (La pazzia di Re Giorgio) o in acclamati successi nel West end e a Broadway (pensiamo per esempio a The history boys che gli fece vincere Tony e Lawrence Olivier awards), mette a nudo il rapporto che lo legava ai suoi genitori. Violinista costretto a fare il macellaio per mantenere la famiglia e casalinga affetta da depressione cronica, i genitori di Alan Bennett sembrano vivere nella costante ricerca di una versione di sé che possa soddisfare gli altri. Convinti che intorno a loro ci sia una maggioranza di famiglie capaci di parlare fra loro, ascoltarsi, condividere momenti di divertimento e di vita sociale cui loro non riescono ad attingere, i Bennett sono divisi fra la rassegnazione del marito e la necessità di trovare altro da sé della moglie, entrambi intrappolati nella loro timidezza cronica.


“Timidezza – ci dice Bennett - è una parola delicata, soffice, nebulosa, che avvolge comportamenti di ogni sorta. Si associa a un uomo di mezza età o a una donna ombrosa che vivono ancora con una mamma anziana, ma anche a persone disadattate, selvatiche, potenzialmente pericolose. ‘Timido’ è uno spettro che si allarga da chi fa tappezzeria alle feste allo psicopatico. […] Per giustificare una persona o minimizzare una sua mancanza si dice che è timida”. Mancanti si sentono i Bennett, ma mentre il padre di Alan trova in sua moglie l’altra metà del guscio di noce in cui chiudersi per difendersi dal mondo, la madre di Alan non ce la fa. Legge riviste che parlano di cocktail parties, senza avere la minima idea di cosa siano, ma con un forte desiderio di prendervi parte, in un angolo però, dove possa osservare senza essere osservata. Si siede per ore a fissare un mondo altro da sé che solo lei riesce a vedere, facendo scricchiolare la quiete apparente del cottage di campagna in cui i Bennett avevano deciso di trasferirsi proprio per fare nuove amicizie. Così iniziano i ricoveri in ospedale, i silenzi delle visite quotidiane, le pillole, i picchi di umore, muraglie a qualsiasi rapporto umano. La consapevolezza di non essere come gli altri e il desiderio tenace di diventarlo. Questo conflitto pervade tutto il romanzo e mentre l’autore ordina gli scatti della sua infanzia, a voler dimostrare che la sua famiglia era come le altre, riesce abilmente a farci pensare esattamente il contrario.


La famiglia Bennett è come le altre perché spesso infelice, ma lo è in un modo tutto suo. Anzi, è in quella infelicità che si nasconde la loro più grande gioia. Dietro le visite silenziose che il padre di Alan fa alla moglie ricoverata nell’ospedale psichiatrico di turno, dietro l’osservazione del nulla a cui la madre di Alan costringe suo figlio, dietro gli stecchini che lei compra per infilzare mini-würstel e tocchetti di ananas per i party che non avrà mai il coraggio di organizzare, persino dietro le tragicomiche incapacità di una coppia emozionata per l’arrivo dell’unico ospite fisso della loro casa, il postino, a cui offrono con eccessivo entusiasmo un bicchiere di cherry alle dieci del mattino, suscitandone la fuga. Bennett racconta al lettore con sguardo benevolo (ma chirurgico) l’unicità di una famiglia che pur dichiarando di voler una vita come le altre, sembra aver fatto di tutto per evitarla.



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