Le stelle minori non sono quelle che ti aspetti. Parola di Mattia Signorini

“Tra i tanti ricordi che una storia porta con sé, quello che ci accompagna più spesso è la memoria della sua fine”. Il secondo capitolo di Stelle minori di Mattia Signorini (edito da Feltrinelli) si apre con questa affermazione e sebbene siano molti gli incipit con cui l’autore riesce ad aprire una crepa nelle certezze del lettore, in questo caso sembra sostenere una tesi per il puro gusto di dimostrarne l’infondatezza. Di questo libro, che narra la storia di due ragazzi (Zeno e Agata) e del loro passaggio traumatico all’età adulta, dubito ricorderete solo la fine. Il piacere maggiore, in questo caso, lo dà il percorso. Il gioco di richiami incrociati, suggestioni e indizi che Mattia Signorini srotola come un tappeto magico davanti agli occhi del lettore vedrà interi elefanti sparire, per poi riapparire delle dimensioni di un topolino. Passato e futuro si mischieranno, fino a rendersi uno lo specchio dell’altro, in una montagna russa di scoperte che vi lasceranno sempre con un esercito di domande a sbarrarvi il cammino.


Scritto in prima persona dal punto di vista di Zeno, Stelle minori chiarisce subito al lettore che c’è un mistero da svelare, che nel mistero è compresa la morte di uno scrittore (Nicola Sceriman) e un amore assoluto e quindi irrealizzabile (quello fra Agata e Zeno), che forse è divenuto tale proprio grazie a questa morte.

Siamo di fronte a un romanzo di formazione, a una storia d’amore o un noir? A tutte e tre? Il fulcro qui non sembra la storia, quanto il ritmo che le è stato impresso. Vorrei iniziare la nostra chiacchierata con l’autore chiedendogli se si ritrova in questa idea oppure è solo dopo aver cesellato una storia solida che si può lasciar montare il ritmo?

Mi è venuta l’idea della storia e di conseguenza il modo di raccontarla. Ciò che sappiamo, all’inizio del romanzo è che Zeno sta raccontando utilizzando un vecchio computer e che ha poco tempo a disposizione, anche se ancora non ne conosciamo il motivo. Sappiamo anche che deve portare a termine il suo racconto, e se non ci riuscirà sarà in pericolo la sua vita futura. Proprio per questo il ritmo è incalzante, perché ne seguiamo in diretta la stesura, guardiamo la vicenda dipanarsi dallo schermo di quel computer. La componente di noir nella storia è molto presente proprio per come lui la racconta. È soprattutto un romanzo sulla ricerca della verità, che non possiamo mai afferrare del tutto.


Il libro è sospeso fra passato e presente. Zeno stesso, narra la sua storia saltando avanti e indietro lungo il filo temporale. Perché ha fatto questa scelta e quanto è stato difficile per lei costruire questa storia?

Ognuno di noi, quando compone nella mente il racconto della sua vita, attua delle correzioni riempiendo i vuoti, cercando di trovare spiegazioni ai fatti casuali che sono avvenuti. La difficoltà è stata proprio in questo, nel raccontare un protagonista che cerca il bandolo della matassa in una distesa di fili che sembrano non avere un inizio né una fine.

Come ha ideato i tre personaggi che muovono la storia (Agata, Zeno e il professor Sceriman)? Quanto di lei c’è in questi personaggi e da dove vengono i loro nomi? Zeno fa pensare subito al personaggio di Svevo e Sceriman è il suo dottor S.?

Dopo aver buttato via un centinaio di pagine di due romanzi che non hanno mai visto la luce, alla fine di un’estate ho scritto di getto il primo capitolo di “Stelle minori”, che nella versione finale è rimasto praticamente uguale. Non sapevo che da lì sarebbe nata una storia. Non sapevo nemmeno da dove venivano fuori i loro nomi né quale segreto si portavano dentro. Ho dovuto scoprirlo insieme a loro, e come succede a Zeno e agli altri non è stato così semplice nemmeno per me.

In Stelle minori ci sono molti riferimenti a letture e a brani musicali che identificano momenti e personaggi più di una forbita aggettivazione. Lei scrive: “Se le cose non vanno per il verso giusto, metto Le variazioni di Goldberg di Glenn Gould e tutto ritorna a posto”. Ha sentito questo e altri brani citati durante la stesura del romanzo? E quanto sono importanti questi riferimenti per tracciare un profilo dei personaggi?

Mentre scrivevo ascoltavo due dischi in vinile: oltre alle Variazioni Goldberg, anche Currents dei Tame Impala. Li mettevo in base alle scene che dovevo scrivere: per quelle più concitate mi aiutava il rock psichedelico, per le parti invece più riflessive e pensate il Beethoven di Glenn Gould era perfetto. Avevo riscoperto i vinili da circa un anno. Per ascoltare un disco in vinile dovevo dedicarci il giusto tempo. Ogni quindici, venti minuti, smettevo di scrivere, sollevavo la puntina e rimettevo il braccio al suo posto. Poi, con delicatezza, giravo il disco e lo facevo ripartire. Questo gesto rituale, protratto per mesi, oltre a farmi riscoprire un certo modo di ascoltare la musica, deve essere entrato nel mio inconscio. Infatti sullo sfondo della storia tra storia di Zeno e Agata, nei momenti più importanti, c’è sempre un giradischi.


Il titolo di questo romanzo. Come è stato scelto e da chi? C’è una possibilità di brillare di luce propria anche per le stelle minori? E lei come si considera?

Ne avevo in mente due, tra cui “Stelle minori”, ma all’inizio preferivo l’altro. È stata Laura Cerutti, la responsabile della narrativa italiana in Feltrinelli, e mia editor, che mi ha guidato con convinzione nella scelta. Lei leggeva la storia mentre la scrivevo, ne abbiamo discusso perfino durante le vacanze di Natale. È come ci sentiamo tutti prima o poi, no? Stelle minori. Anch’io, spesso, mi sento così. Questo accade perché paragoniamo la nostra vita a quella degli altri, mentre dovremmo lavorare su di noi cercando di essere migliori ogni giorno di quello che siamo stati il giorno prima.

Nel libro si parla anche di Tocqueville, citando una sua frase: “Si può prevedere che la fede nell’opinione comune diventerà una specie di religione di cui la maggioranza sarà il profeta”. Il professor Sceriman pone più volte attraverso i racconti di Zeno il tema dell’impatto dei social media e di internet sul sistema di relazioni dell’uomo. Quanto sente suo questo tema?

Non sono contrario all’uso dei social network, soprattutto quando diventano un veicolo per comunicare il nostro lavoro e le nostre passioni. Io stesso seguo molti bookblogger, attraverso le loro pagine ho scoperto libri preziosi che altrimenti non avrei mai letto. Credo però che i social network diventino un problema quando vengono usati per creare uno storytelling edulcorato della vita quotidiana. Noto la tendenza a mostrare versioni di sé cariche di positività ed entusiasmo, come se fosse diventato un demerito non sentirsi sempre al massimo.


Nel percorso formativo dei due giovani protagonisti del romanzo, si parla anche di fallimento: “Dovremmo chiederci, in buona sostanza, perché non accettiamo l’idea di fallimento”. Perché non l’accettiamo? E lei come vive il fallimento e ne ricorda uno in particolare che le ha permesso di intraprendere una strada più fruttuosa e adatta a lei?

La nostra società, che premia solo chi arriva sul podio e tende ad annullare tutti gli altri, vede il fallimento come una sconfitta e non dà valore a un altro aspetto: chi ha fallito è perché ha provato a fare qualcosa. L’esperienza del fallimento ci consente di imparare, in questo modo possiamo rimetterci in gioco con un bagaglio in più. Ho creduto di fallire molte volte nella vita. A distanza di tempo ho capito che non si trattava di traguardi non raggiunti, ma solo di tappe a cui ero arrivato in un modo diverso da quello che mi aspettavo.

Cosa troverà un lettore nel suo romanzo che non può trovare nelle storie di altri autori contemporanei? E lei cosa cerca in una storia perché possa suscitare il suo interesse?

Sinceramente non lo so. Non scrivo libri per differenziarmi da altri autori. Scrivo solo quando sento l’urgenza di raccontare una storia, senza farmi troppe domande. Ed è quello che cerco nei romanzi che leggo: urgenze simili alla mia e pagine che mi portino lontano dal posto in cui mi trovo.


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