Molly’s Game, il volto ‘buono’ di Gekko secondo Aaron Sorkin

“Il mondo è cambiato la scorsa notte in un modo da cui non sono capace di proteggerci. È una sensazione terribile per un padre. Non voglio addolcire la situazione: è davvero orribile”. 


È l’inizio di una lettera che Aaron Sorkin, sceneggiatore fra i più apprezzati di Hollywood, scrive alle ‘Sorkin Girls’, le sue figlie, l’indomani della vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali nel novembre del 2016. La lettera fu pubblicata integralmente su Vanity Fair e suscitò molto scalpore per i toni tutt’altro che morbidi che Sorkin usò per descrivere il neo presidente degli Stati Uniti: “thoroughly incompetent pig with dangerous ideas, a serious psychiatric disorder, no knowledge of the world and no curiosity to learn has”.


Sono passati 18 mesi da quell’inizio di novembre che segnò uno dei cambi di inquilino più sofferti nella storia della Casa Bianca, per la divisione feroce e apparentemente incolmabile fra chi ha esultato e chi è rimasto incredulo davanti a questa ‘impossibile’ vittoria, ed ecco arrivare sul grande schermo (Molly’s Game) che vede Sorkin non solo nel ruolo di sceneggiatore ma anche di regista. Le aspettative per l’autore di testi che hanno dato vita a film come A few good man, The american president e The social network era molto alta, ma nessuno si sarebbe aspettato la storia di una donna (la Molly del titolo) che gestisce una bisca clandestina multimilionaria e sembra incarnare proprio i valori che il machismo made in Trump ha rappresentato per molti dei suoi elettori. Il potere sugli altri come afrodisiaco del proprio egocentrismo, la sensazione di contare qualcosa solo se si è al centro della scena, l’incapacità di accettare e tantomeno imparare da una sconfitta, la divisione del mondo in chi conta e chi non vale nulla sulla base dei soldi che possiede e della gente che frequenta, l’incapacità di immedesimarsi in chi ha un punto di vista alternativo al proprio. L’intuizione di Sorkin è quella di fare di questa donna, che si circonda di figure femminili che vengono utilizzate come oggetti per intrattenere i giocatori di poker (tutti uomini, bianchi e ricolmi di soldi, spesso dalla dubbia provenienza), in una paladina della giustizia e dell’integrità. 


Lo fa riscrivendo per lo schermo il romanzo autobiografico di Molly Bloom (personaggio pubblico realmente esistito) che, dopo aver provato a diventare una campionessa di sci in una famiglia in cui tutti avevano l’obbligo di essere quantomeno geniali, scopre per caso il mondo del poker, diventando quella che i media avrebbero definito 'The Poker Princess'. La donna che, gestendo bische d’élite su entrambe le coste degli States, è riuscita, in pochi anni, a creare un patrimonio di svariati milioni di dollari. Lei è più furba degli altri, è più veloce degli altri, e soprattutto desidera emergere più di chiunque altro e questo ne fa un’erede in chiave contemporanea di quel Gekko pensiero che Oliver Stone ha tratteggiato così bene nei film Wall Street e Wall Street, il denaro non dorme mai. La novità è che in questo caso la Bloom-Gekko è il ‘buono’ se paragonata alla cerchia di pokeristi con cui si intrattiene. Partendo da questa apparente forzatura, Sorkin fa entrare gli spettatori così a fondo nel Bloom-pensiero da non poter più fare a meno del suo flusso serrato di certezze (“Sapete cosa vi fa sentire bene mentre perdete? Vincere”. Oppure: “Un milione di dollari non è cool, sapete cos’è cool? Un miliardo di dollari”), rimandone affascinati e dipendenti.



Retto da un dialogo serrato e trascinante (che prevale di gran lunga su qualsiasi altra dote del Sorkin regista) e da un cast di attori (fra tutti Jessica Chastain e Idris Elba) in stato di grazia, il film miscela atmosfere alla Soderbergh (Ocean’s Eleven) a dialoghi taglienti che fanno tornare alla mente Lady Eva di Preston Sturges, rivendendo nella Chastain l’imperturbabilità di Barbara Stanwick.


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