Le lettere di Antonio Tabucchi al capitano Nemo


Mondadori dedica uno dei suoi Meridiani ad Antonio Tabucchi. Già questa potrebbe essere una notizia per i tanti lettori che, come me, sentono per le storie e soprattutto per la lingua che Tabucchi ricama intorno a un personaggio quel sentimento di ammirazione e fiduciosa attesa che pochi autori hanno garantito ai loro lettori. Nella raccolta realizzata da Mondadori, in due volumi, troviamo oltre al grande successo internazionale Sostiene Pereira, ai romanzi Notturno indiano, Requiem e alle sue pagine di saggistica e di teatro, un inedito che risale ai primi anni ’70 e che Mondadori pubblica per la prima volta in forma integrale. Tutto comincia nel 2014, quando Thea Rimini pubblica sulla rivista Filologia e Critica un saggio su un inedito di Antonio Tabucchi, un romanzo che è rimasto sospeso in un limbo per quarant’anni. Si tratta di Lettere a capitano Nemo, il cui primo capitolo viene pubblicato sulla rivista il Caffè nel giugno del 1977. Il testo viene descritto dallo stesso Tabucchi come “una cronistoria della nascita di una dissociazione psichica (ma anche metafora della Solitudine)” [1]. Il protagonista, Duccio detto Cino, si prepara a trascorrere il Capodanno insieme a una madre distante e triste in una vecchia villa di una Toscana persa fra la Versilia e Pisa che nasconde nelle sue viscere un segreto di sangue. Lasciato a se stesso e in preda a turbe psichiche per i traumi familiari subiti, Duccio trova nel suo unico amico (immaginario) una sponda per non crollare fin dalle prime pagine della sua storia. Il suo amico è proprio il capitano Nemo del titolo e con lui Duccio inizia un dialogo che serve al lettore per scavare nell’animo del protagonista. 

Fin qui la storia, ma come spesso accade con le opere di Tabucchi, il valore del testo sta nella lingua e nella rivoluzione del ritmo narrativo che ci propone l’autore. Tabucchi sovverte aspettative e dinamiche, lasciandoci preda dei flashback e delle digressioni della mente di Duccio. È il personaggio a guidarci, lui decide tempi e modi per raccontarci frammenti della sua storia e quando siamo sul più bello, pronti a dire: ‘ecco, sì, l’avevo detto che era questo il motivo’, Duccio sfuma, rallenta, sovverte la linea della narrazione, interrompendola lì dove le regole del romanzo perfetto (se mai davvero esistono) ce lo vieterebbero. 
Da ogni iato si genera, come da una fonte inesauribile, una storia nella storia, in un infinito e ipnotico effetto Droste che fa diventare la linea narrativa un cerchio che tutto assorbe e rigenera. La sequenza completa diventa il nemico e la curiosità sta non tanto nell’evento (che non si realizzerà mai), quanto nelle parole che vengono usate per descriverne i contorni. È un flusso che va assecondato, abbandonandosi ai labirinti fonetici che Tabucchi disegna per noi, dove l’ultimo indizio è la valigia che l’autore prepara per il suo protagonista prima della partenza per il suo viaggio nella pancia del Nautilus: “poco funzionale ma pittoresca come si addice a una valigia della fiction”. 



Nell’appendice del romanzo Lettera a capitano Nemo troviamo un altro regalo. Una postfazione dello stesso Tabucchi in cui, evento raro, scopriamo cosa accade dopo la fine del romanzo secondo il suo autore: “Fuori dalla visuale di questo romanzo, al di là della sua delimitazione testuale, oltre il cippo perentorio e definitivo dell’affabulato, mi pare lecito supporre un Nautilus che si metta in viaggio. E che tale viaggio, paradossalmente, sia il capitolo più importante di tutto il romanzo. Di esso, però, la scrittura tace. Non so se per malizia, per ritrosia, per incompetenza, per codardia o per deliberata complicità col Possibile. Come se il dépliant di una diligente agenzia, invece di illustrare il dove e il come di un viaggio programmato, impiegasse tutte le sue risorse professionali a dare istruzioni sul modo di fare la valigia. C’è in ciò qualcosa di stolto e di illogico, ma anche il sospetto di una vaga perfidia, di una bizzarra simbiosi: quasi un incrocio fra uno iato e una promessa. […] Viaggia ancora Duccio? Il Nautilus ha già attraccato? E dove? E quando? E in che modo? E, eventualmente, sotto quale forma? È un oggetto mostruoso che tutti riteniamo familiare solo per l’abitudine a vederlo, o un oggetto familiare che tutti riteniamo mostruoso solo per l’incapacità di guardarlo? È un incontro fortuito o un appuntamento mancato? È ciò che non credevamo potesse mai capitarci e che invece ci ha ribaltato la vita, o ciò che desideravamo tanto… ma poi stavamo per fare tardi in ufficio…? È un corpuscolo che tiene dell’infinitesimale e che sta sbucando proprio ora in un dente che fino a un momento fa non ci duoleva e che invece, guarda un po’, rivela una carie insospettata? Perché no, perché no. Il Nautilus, fondamentalmente, viaggia nel nostro Plausibile”. 


[1] -  Da lettera del febbraio 1977 di Antonio Tabucchi a Giambattista Vicari, fondatore del periodico satirico il Caffè.

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