“Paperiare” nei sogni: De Filippo secondo Servillo.

Tutti noi avremo avuto una madre, un nonno, uno zio, magari una noiosa cugina che ci faceva notare che quel comportamento proprio non andava, che sì, potevamo anche metterlo in atto, che lei ci comprendeva persino, ma che non per questo quell’azione doveva essere resa palese.
Perché la forma è sempre presente, la forma è tutto, la forma è così pervasiva da poter diventare l’unica nostra sostanza. Quello che pesano gli altri, quello che dicono gli altri, quello che fanno gli altri alle nostre spalle, perché gli altri sono capaci di tutto e noi non ci fidiamo mai davvero di nessuno. Perché i tempi sono cupi e la tracotanza è diventata legge e l’etica è solo una parola confusa che non sa bene dove andare.

Da questo incipit nebuloso e carico di nefasti presagi, si muove la pièce di Edoardo ambientata alla fine della seconda guerra mondiale, in una realtà cupa in cui tutto, soprattutto il male, è stato sdoganato, legittimato e praticato. Un’epoca che ha molte affinità con la nostra, pur essendo portatrice della grande scusa della guerra di cui la nostra non può ancora fregiarsi.
Ma a pensarci bene, una guerra c’è anche per noi ed è quella dentro la nostra anima, quella che Edoardo sa perlustrare così bene, riuscendo a farci ridere di noi stessi e a farci inorridire di noi stessi, senza neanche rendercene conto; abilità che Beppe e Toni Servillo hanno distillato con maniacale perfezione nella loro messa in scena [2] delle Voci di dentro, iniziandoci a un viaggio fonemico e ritmico senza uguali.

E quando Alberto Saporito parla con suo zio (Nicola), che ha scelto di rimanere muto per il resto della sua vita avendo capito che l’umanità è sorda (meraviglioso personaggio dal sapore beckettiano, che si esprime sulla scena solo attraverso lo scoppio dei suoi mortaretti), sembra anche a noi di comprenderlo, sembra anche a noi di aver superato la forma delle cose, contemplando una sostanza che nessuno può permettersi di fissare troppo a lungo.
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