L’arte di spaventare: intervista con Jeffery Deaver


«Thomas Harris, Stephen King e Jeffery Deaver, i grandi maestri del Thriller» parola di Sandrone Dazieri, uno degli autori contemporanei più interessanti del panorama italiano del romanzo noir/thriller, «questi tre autori – continua Dazieri - sono da studiare continuamente», possibilmente da vicino. Detto fatto, ho approfittato del Salone Internazionale del Libro di Torino per incontrare Jeffery Deaver, 66enne prolifico scrittore americano che è riuscito a creare alcuni personaggi che di storia in storia (il romanzo seriale Deaver lo scriveva già negli anni ’90) hanno attraversato vent’anni, risultando ancora vividi e necessari per i milioni di lettori che, in ogni angolo del pianeta, attendono il prossimo romanzo di Jeffery Deaver. 

Lo incontro nella hall di un hotel nato dal recupero di una porzione del Lingotto di Torino, dove di solito vengono accolti gli ospiti più prestigiosi del Salone: un rincorrersi di cristalli e travi in ghisa, candidi divani dalle forme compatte e poltrone in rattan dalle spalliere fuori misura e dai cuscini color melanzana.  È proprio in una di queste sedute inconsuete, che fanno pensare al setting di Alice nel Paese delle Meraviglie (penso al film di Tim Burton), che mi siedo con Jeffery Deaver, che, da buon americano, riesce subito a creare quel livello di formale confidenza che renderà l’intervista più semplice. Mi chiede della mia mattinata al Salone, si informa su cosa leggo e sulle numerose buste ricolme di libri che mi trascino dietro. Poi in un attimo tutto cambia, i suoi occhi si fissano nei miei, si sistema gli occhiali rettangolari di osso neri, spigolosi, come le ossa delle sua mandibola, che sembrano fare a pugni sotto il sottile strato di pelle che le separa dall’atmosfera. Convenevoli finiti, via all’intervista.   

Lei è uno dei pochi scrittori contemporanei che sembra costruire le sue storie come se dovessero essere un ingranaggio perfetto. Leggendo i suoi libri, mi capita di pensare a un meccanico della Ferrari, qualcuno che costruisce un oggetto unico, con una cura per i particolari che in pochi sapranno capire nel dettaglio, ma che tutti apprezzeranno una volta di fronte al risultato finale. Ogni scena, ogni personaggio, ogni aggettivo, tutto fa parte del suo ingranaggio per tenere il lettore avvinto alla sua storia. Così il lettore è convinto che l’unico motivo per cui esiste un romanzo di Jeffery Deaver sia compiacerlo. È proprio così?
Io passo almeno otto mesi a costruire la struttura di un romanzo, otto mesi dedicati esclusivamente a questa attività, cercando di disegnare tutte le scene che compongono il romanzo. Tutto parte da un’idea. Nel caso di The Steel Kiss, l’idea di base era di trasformare oggetti di uso quotidiano in armi. Utilizzo una grande lavagna di sughero dove sistemo su post-it tutte le scene del mio romanzo intorno all’idea di base e le analizzo, le metto in discussione. In questo periodo non scrivo, mi limito a lavorare sulla struttura e poi quando mi sembra che sia pronta, la porto dalla lavagna al pc. La struttura del mio ultimo libro era lunga più di duecento pagine, mentre la costruisco, mi occupo anche dell’attività di ricerca necessaria per rendere il più possibile realistico il flusso degli eventi. Solo alla fine di questa fase, mi siedo e scrivo il vero e proprio romanzo. Mi bastano due mesi, perché a quel punto è tutto chiaro nella mia mente. 

Non le è mai capitato di non rispettare questo flusso creativo? 
Mai. Se lo facessi rischierei di lavorare per mesi e rendermi conto che una storia non funziona solo dopo aver scritto centinaia di pagine di prosa. Sarebbe molto difficile a quel punto buttare via tutto. Se invece mi metto a lavorare alla struttura del testo, già dopo poche settimane mi rendo conto se l’idea può diventare un romanzo. Tutti possono scrivere una buona prosa, ma una buona prosa non serve a niente. È la storia che fa il romanzo. 

The Steel Kiss (Il bacio d’acciaio – edito in Italia da Rizzoli) è il romanzo che presenta oggi al Salone del Libro. È il dodicesimo che vede protagonista il detective Lincoln Rhyme, un personaggio che ha creato nel 1997, come protagonista del suo The bone collector (Il collezionista di ossa). Ne Il bacio d’acciaio abbiamo un assassino, un predatore che uccide utilizzando prodotti che usiamo tutti i giorni (scale mobili, ascensori, microonde, ecc.). Chiunque potrebbe essere un suo obiettivo, perché tutti siamo complici di un grande fratello consumistico che ci fa comprare prodotti di cui non abbiamo bisogno devastando il nostro pianeta. Come ha scelto questo tema?
È importante per un libro avere una connessione con la realtà che circonda il lettore. Attenzione però a non scrivere un libro per mandare un messaggio al mondo. Se si vuole mandare un messaggio a qualcuno è meglio usare Western Union, si hanno maggiori probabilità di arrivare a destinazione. Si può però rendere la storia più ricca parlando di un tema che tocca da vicino i lettori, che così si sentiranno parte attiva nel romanzo. Allo stesso modo, un altro tema che è presente nel libro è la privacy e la difficoltà che abbiamo a preservarla. Oggi mettiamo tutti i nostri dati nel cloud, ma sono davvero protetti? Chi può accedervi e come può utilizzare questi dati? Leggevo qualche giorno fa che in America due giovani hackers hanno preso il controllo di un’auto con uno smartphone e l’hanno fatta schiantare. È una di quelle cose spaventose che potrebbero accadere a ognuno di noi ed è importante esserne consapevoli. 

Qual è stata la scena più difficile da scrivere ne Il bacio d’acciaio? 
Non saprei dire se ne esiste una. Certo le più complesse da scrivere sono come sempre quelle che riguardano le relazioni umane, l’importante è rimanere al di fuori della sfera emozionale del personaggio. Non farsi catturare dalle sue emozioni. Uno scrittore è come un pilota di un aereo. Spesso e senza preavviso si trova a viaggiare in una tempesta. Preferirebbe il sereno, certo, ma è addestrato per volare in qualsiasi condizione e sa di potercela fare, l’importante è che resti il più possibile distaccato. Se iniziasse a pensare che è responsabile della vita o della morte di centinaia di persone, non supererebbe la tempesta. Per lo scrittore è lo stesso, non si deve far coinvolgere dalla storia, così da lasciare tutta l’emozione ai lettori. 
Quanto è importante per Jeffery Deaver spaventare il lettore? È consapevole che dopo questo romanzo milioni di persone avranno paura a usare il loro microonde? 
Per me è vitale riuscire a spaventare le persone. Io non voglio scrivere libri interessanti, ma avvincenti. Il lettore deve leggere un mio libro in un’unica notte, senza riuscire a staccare gli occhi dalla pagina, anche se vorrebbe, anche se quello che legge lo mette a disaggio, lo spaventa, lo disorienta. Io ho bisogno di un lettore che vuole fuggire dalla mia storia e al contempo non può sottrarsi. 
Come fa a creare questa dipendenza? 
Uno scrittore deve conoscere il suo pubblico. Deve sapere cosa provano i suoi lettori, come scatenare in loro le emozioni di cui hanno bisogno perché la storia non venga abbandonata. 
Lei si è definito uno scrittore di romanzi commerciali. Cosa intende esattamente? Molti autori italiani avrebbero sofferto per una definizione del genere del loro lavoro.
Un romanzo è un prodotto. Non è molto diverso da un buon tavolo, entrambi possono essere fatti da un artigiano o in serie, ma ciò che conta è che trovino un compratore che li usi e che trovi utile usarli. Un romanzo nasce per intrattenere delle persone. Molti scrittori pensano a se stessi come artisti, ma un artista è un artigiano che vuole modificare la percezione della realtà che ha intorno attraverso la sua opera. Vuole che le persone si pongano delle domande, che trovino altri punti di vista. Questo va bene, ma per realizzarlo occorre essere padroni, come tutti i bravi artigiani, delle tecniche giuste. Bisogna che i lettori capiscano cosa lo scrittore vuole dire loro. Umberto Eco era un grande scrittore perché aveva una grande padronanza della lingua e delle tecniche narrative, ma al contempo riusciva a rendere comprensibili ai lettori temi apparentemente molto complessi. Alcuni miei colleghi si siedono alle loro scrivanie, aprono la loro mente e lasciano che i loro pensieri fluiscano non filtrati sulla carta, come se poi toccasse al lettore interpretarli, ma tocca allo scrittore rendere il proprio pensiero accessibile. 
So che ama e legge poesia. Come influenza il suo lavoro? 
Sì, adoro la poesia. Amo leggere Frost, Pound e soprattutto T. S. Eliot. La poesia insegna la potenza e la consapevolezza della parola. Quando finisco di scrivere i miei romanzi li leggo ad alta voce per vedere se c’è la giusta armonia fra le parole, se le sonorità usate sono quelle giuste per sottolineare l’azione, la sensazione che vorrei provocare nel mio lettore. Userò per esempio un linguaggio e una sonorità diversa in scene d’azione (parole di poche sillabe, paragrafi contratti) rispetto a scene dedicate all’analisi interiore di un personaggio (periodi più lunghi, parole più ariose, con maggiori sfumature).  Questo aiuta il lettore a entrare nel profondo della storia, a percepirne il ritmo, preparandolo a quello che accadrà dopo. 
È vero che ha scritto il suo primo romanzo all’età di 11 anni? Lo ha ancora?
Era un racconto in verità. Una storia avventurosa, un paio di capitoli alla James Bond. Ho sempre amato Fleming e il suo agente segreto. Non so che fine abbia fatto il mio testo, ma già allora sapevo che quello sarebbe stato il mio lavoro.   
Cosa cerca in un libro come lettore? 
Ho bisogno di storie che si muovano velocemente. Devo trovare un senso di conflitto fra i personaggi che mi costringa a pormi delle domande. Voglio un libro onesto, che nasca senza grandi ideali sottostanti, ma con una solida struttura. Mi piacerebbe fosse scritto da chi sia consapevole dell’importanza e della bellezza del linguaggio e sappia metterla in atto. E poi mi piace un finale coerente con la storia, non amo i finali che lasciano in sospeso il lettore, non del tutto. 

Lei pubblica un nuovo libro ogni anno, non teme di trovarsi di fronte al blocco dello scrittore. Le è mai successo? 
No. Per me scrivere è necessario e mi diverto a farlo. Mi capita spesso nei miei corsi di scrittura che uno studente venga da me e mi dica: “Amo scrivere ma non riesco a trovare il tempo per farlo”. Non diventerà uno scrittore. Chi invece viene da me e mi dice: “Ho problemi perché non riesco a tenere in ordine la mia vita a causa della scrittura”. Ecco questa persona ha ottime chance di diventare uno scrittore, lo è già. Certo, sono consapevole di essere molto fortunato perché io posso scrivere e basta, quindi per me è più facile tenere in ordine il resto della vita. 


  

Commenti

Post popolari in questo blog

Un giorno come questo di Peter Stamm

L’ansia di fare, sì, ma di chi è la colpa?

Nessuno, nemmeno la pioggia, ha così piccole mani