La famiglia d’oro di Salman Rushdie e l’America dell’era Trump



L’uscita di un nuovo romanzo di Salman Rushdie è sempre un evento letterario, lo è ancor di più se l’autore decide di confrontarsi con il passaggio dall’era Obama a quella Trump, in un’America che sembra voler far il verso a La fiera delle vanità di William Makepeace Thackeray (scrittore inglese di origine indiana, come Rushdie, che fotografò senza pudori la società inglese del XIX Secolo). Ne The Golden House, appena uscito per Penguin-Random House in Usa e UK, Rushdie racconta la storia di enigmatico miliardario di origine indiana (Nero Golden) che si trasferisce, il giorno dell’insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca, al “the Gardens”, un’esclusiva residenza nel Greenwich Village a New York.  Con lui tre figli (Petronio, Lucio Apuleio e Dioniso), ricolmi di segreti, presunte doti artistiche e succose ossessioni. La loro storia ci viene narrata dal punto di vista di Renè, giovane e ambizioso film-maker, che li osserva con una dedizione che sfocia nell’ossessione alla Hitchcock.



Fin qui quello che è dato sapere della storia (odio chi fa spoiling), ma come accade spesso nei romanzi di Rushdie, in the Golden House c’è molto di più di una cronaca delle vicende di una ricca famiglia dagli oscuri natali negli anni che portano dall’elezione di Obama a quella di Trump. Questo testo apre tutta una serie di ‘scomode’ finestre sulla società contemporanea.

Si parla della fame di ‘nuove’ certezze della classe media americana, quella che ha votato Donald Trump, non per l’egocentrismo dei democratici o per l’incremento esponenziale della disparità economica, ma perché desiderosa di certezze assolute a cui appigliarsi come l’ultima zattera inespugnabile in un oceano di informazioni continue dalla dubbia origine.



Si parla di filosofia e di sinderesi, riferendosi al principio secondo cui ogni essere umano nasce con il bisogno di sapere cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. Secondo Rushdie, intervistato da Emma Brockes del Guardian: «Abbiamo bisogno di sapere quali sono confini del bene e del male per poter funzionare nel mondo. Non penso che sappiamo fin dalla nascita ciò che è giusto o sbagliato, ma penso che abbiamo in noi il desiderio di scoprirlo […] Penso che il grande confine (fra bene e male ndc) sia non tollerare chi vorrebbe distruggere il mondo solo perché garantisce a tutti di essere accettati. È l’errore commesso in Germania negli anni della nascita del nazismo. È ciò che ha permesso a questa ideologia di crescere fino a vincere le elezioni per poi abolirle».


L’autore, conosciuto dal grande pubblico grazie ai suoi Versi Satanici (1988), ma entrato nella storia della letteratura contemporanea grazie al suo immaginifico Figli della mezzanotte (1981, vincitore del Booker Prize) non risparmia critiche ad alcune manie della società contemporanea, a cominciare dall’identità, tema che è diventato predominante a livello globale, fino a esondare nelle nostre vite, ricoprendo di verdetti preconfezionati le nostre idee. In televisione, sulla Rete, in pubblicità, dovunque si parla di identità, ciò che cambia da paese a paese è la sua declinazione. In America diventa subito di genere, in UK, complice anche l’effetto Brexit, nazionale, in India è stata e sarà ancora per molto religiosa.  Tutti tendono a far prevalere il proprio concetto di identità su quello altrui, senza pensare alle conseguenze.

Con un linguaggio ricercato fino alla dannazione, paragonato con palese ironia dal New York Times a “un salto da Cirque du Soleil in una rete che solo l’autore può vedere”, the Golden House si presenta come una sfida per il lettore. Una sfida che aspettiamo con ansia di affrontare e, perché no, vincere.



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