Lettere a un giovane scrittore: da Rilke a McCann, tutti consigli per trovare, da soli, la propria voce.








Il 17 febbraio 1903 Rainer Maria Rilke scrive a una lettera a un giovane poeta che gli aveva inviato i suoi versi in lettura. Rilke glieli restituisce, schernendosi dal ruolo di critico («Nulla può toccare tanto poco un’opera d’arte quanto un commento critico») e ancor più da quello di ‘promotore’ della presunta capacità letteraria del giovane poeta. Ciò che regalerà però a Franz Xaver Kappus (questo il nome del giovane autore) sarà il privilegio di un consiglio sincero: «Guardi dentro di sé. Si interroghi sul motivo che le intima di scrivere; verifichi se esso protenda le radici nel punto più profondo del suo cuore; confessi a se stesso: morirebbe, se le fosse negato di scrivere? Questo soprattutto: si domandi, nell’ora più quieta della sua notte: devo scrivere? Frughi dentro di sé alla ricerca di una profonda risposta. E se sarà di assenso, se lei potrà affrontare con un forte e semplice ‘io devo’ questa grave domanda, allora costruisca la sua vita secondo questa necessità».




È da qui che parte anche Colum McCann, scrittore irlandese, trapiantato a New York, vincitore del National Book Award con il romanzo Questo bacio vada al mondo intero (Rizzoli - 2010), per il suo ultimo lavoro Letters to a young writer (Random House - 2017). Guardare dentro se stessi, perché nessuno può capire se una persona è fatta per la scrittura se non la persona stessa. Ciò che un altro autore può fare per chi sta ancora trovando la misura del suo scrivere è aiutarlo a capire dove si nasconde ciò che McCann definisce «the spark». La scintilla da cui partire per costruire la sua storia. 
È quello che McCann cerca di fare con le sue classi (docente al prestigioso e ambitissimo corso di Creative Writing dell’Hunter College di New York, lo stesso dove insegnano Zadie Smith, Jonathan Safran Foer, Salman Rushdie e Toni Morrison) ed è quello che cerca di offrire al lettore con questo ‘piccolo’ libro dall’ampio respiro che affronta tutte le domande che uno scrittore (giovane o vecchio che sia) si è già posto migliaia di volte nella sua testa, foraggiando le sue paure. 

Perché si scrive? Di cosa si scrive? Quando, dove, di chi e soprattutto come si scrive? Senza dimenticare speranze, ossessioni, ansie e fallimenti (tanti) che ogni scrittore che si rispetti colleziona compulsivamente. E se molti dei consigli che leggerete in Letters to a young writer sono già noti a chi si cimenta con la maratona dello scrivere (chi è un velocista per natura, rischia cocenti delusioni), la capacità di McCann di condensarli in poche frasi, che si conficcano nella memoria del lettore come puntelli sicuri per continuare l’arrampicata narrativa, è rara quanto il suo amore sincero per l’ossessione dello scrivere. 


Non abbiate remore scrittori giovani e non che leggete queste righe: tuffatevi nelle parole di McCann, scelte, come lui stesso consiglia, con attenzione maniacale: «l’unica cosa che dovrebbe precedere o seguire una buona frase è un’altra buona frase» a formare una melodia, la musica delle parole che nasce dalla musica umana, di cui è solo un riflesso. Per arrivare a questo punto, c’è una sola strada: esercizio e qualche revisione di regole auree della scrittura. Vi ricordate: ‘scrivete di ciò che conoscete’? Beh, McCann va un po’ più in profondità: «Don’t write what you know, write toward what you want you know». Non limitatasi quindi a ciò che conosciamo, ma iniziare un viaggio in direzione di ciò che vorremmo conoscere. Investigare, domandare, mettere e mettersi in discussione. E questo va fatto anche con i personaggi delle storie che vorremmo scrivere. Di loro dobbiamo sapere tutto, non soltanto ciò che ordineranno per colazione, ma anche ciò che avrebbero voluto ordinare. Dove sono nati, qual è il loro primo ricordo, come attraversano la strada, perché hanno sempre dello sporco sotto le unghie, per chi voterebbero alle prossime elezioni, cosa li spaventa, per che cosa si sentono in colpa. Come riuscirci? Camminare con loro per un po’, farseli amici e nemici, discuterci e infine: «write them real». 




E la trama? Punto su cui agenti e editori non fanno che insistere: una trama solida, è da lì che parte tutto. Non secondo McCann: la trama è importante certo, ma è sempre a servizio della lingua. Non è tanto importante quello che accade, ma come accade e il ‘come’ è strettamente legato al linguaggio scelto dallo scrittore per catturare l’azione. Ricordandosi che, mentre nei film siamo alla ricerca dell’azione, nei romanzi siamo alla ricerca della contraddizione e niente può essere più spettacolare di una completa mancanza di azione se supportata dalla melodia del linguaggio. Qualcosa che ci faccia sentire il dolore di una domanda, di un cambiamento. Qualcosa che ci faccia sentire realmente vivi, magari rovistando nella saggezza di Stephen King: «Plot is, I think, the good writer’s last resort and the dullard’s first choice» [1]




 [1] = La trama è, io penso, l’ultima risorsa di un bravo scrittore e la prima scelta di uno stupido.




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