Overdose da playlist: come (e se) resistere alla necessità di rendere eccezionale ogni momento


Musica per pensare, per andare a lavoro, per rilassarsi, per correre, per leggere, per scrivere, per mangiare e per fare l’amore. Spotify insegna che se si è in cerca di una ‘playlist’ che ci aiuti a realizzare una qualsiasi delle infinite azioni che un essere umano può compiere, c’è qualcuno che ne ha avuto bisogno prima di noi e ha confezionato una raccolta di brani adatti allo scopo. 


Il colore e il sapore emotivo che la musica può dare a un frammento del nostro vivere è noto fin dall’antichità, quando i poeti/cantori greci accompagnavano la declamazione delle loro opere con il suono della Lira, ma solo nel XXI secolo la musica sembra essere diventata compagna imprescindibile di ogni nostra azione. E se guardando film come American Beauty, Once e Begin Again non possiamo che concordare sul potere della melodia, che può far diventare interessante la più insulsa delle azioni: camminare per strada, aggiustare un aspirapolvere, guardare una busta che viene sospinta in aria dal vento, è davvero possibile o necessario che ogni attimo della nostra giornata debba essere eccezionale? Davvero abbiamo bisogno di essere sempre e comunque persone speciali che vivono momenti speciali? E così facendo, non rischieremo, a un certo punto, di annullare del tutto la nostra sensibilità per overdose emotiva? 


Qualche giorno fa sono andato a uno dei 140 concerti che il festival MITO Settembre Musica ha organizzato fra Milano e Torino nei 18 giorni dell’edizione 2017. Ho scelto un duo molto particolare: Ödön Rácz (primo contrabbasso dei Wiener Philarmoniker) e Stephan Koncz (superbo violoncellista dei Berliner Philarmoniker). Adoro questi due strumenti quando suonano all’unisono, sono generatori di intuizioni. Stanno lì a scavare, pizzicando i tendini del sentire umano, finché non generano un’emozione acerba e viva. Un attimo di gioia pura. Quella che ho provato ascoltando la Sonata n.4 in sol maggiore di Jean Baptiste Barrière, ma quando il concerto è finito e mi sono trovato a percorrere una Milano appena ritinteggiata da un temporale, ho sentito la mia mano correre alla tasca del giubbotto per tirare fuori le cuffiette e connettermi al mio ‘personale’ ripetitore di piacere (lo smartphone). Ho cercato la sonata su Spotify convinto, sperando di non trovarla. Chi oggi si dichiarerebbe follower di un violoncellista francese del XVIII secolo? Ma la app nero verde ha subito spento il mio desiderio di unicità, rivelandomi che la sonata che cercavo era non solo disponibile, ma aveva già qualche centinaia di appassionati che l’avevano inserita in varie playlist. Ho schiacciato play e per un attimo ero di nuovo in compagnia di Rácz e Koncz, ma ero anche per strada, passeggiando per la città odorosa di asfalto bagnato e armonie inconsuete. Il duo era nella mia testa e io nella loro, una cosa sola. Gioia pura, eppure, a ogni passo, i contorni di questa emozione sfumavano, come se all’improvviso tutti gli altri follower di Barrière si fossero connessi alla mia mente, desiderosi di provare la stessa emozione nello stesso momento in cui la provavo io. E qualcosa si è spento. Ho staccato le cuffie dallo smartphone, lasciando che la città entrasse in scena a dichiarare chiuso il mio attimo di gioia. 



Overdose emotiva, basterà calarsi in una lettura in solitaria (possibilmente ‘sconnessa’ da ogni altro device che non sia la propria immaginazione) per liberarsi dalla dipendenza da gioia esclusiva? 





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