A ciascuno il suo punto di osservazione delle stelle


Viviamo tutti immersi nel fango, ma alcuni di noi guardano le stelle. Questo, fra i preziosi aforismi di Oscar Wilde, è il fulcro da cui parte Todd Haynes per costruire la ‘sua’ stanza delle meraviglie (il film Wonderstruck, in italiano appunto La stanza delle meraviglie, presentato a Cannes nel 2017 e uscito solo adesso nelle nostre sale), convinto che solo guardando a cosa succede lontano da noi possiamo provare a capire cosa accade intorno a noi. 



Il regista di Lontano dal paradiso, parte dal libro omonimo di Brian Selznick (autore di Hugo Cabret, da cui Scorsese ha tratto un film nel 2011) per raccontare la storia di due bambini che si trovano a compiere un viaggio in solitaria verso New York a distanza di cinquant’anni l’uno dall’altro (Rose negli anni ’20 e Ben negli anni ’70). Entrambi sono alla ricerca di un mondo diverso da quello in cui vivono, un mondo in cui Rose ha una madre che le vuole bene e non l’ha abbandonata per fare l’attrice a New York e in cui Ben, orfano di madre, ha ancora un padre che vorrebbe stargli accanto, anche se lui non l’ha mai conosciuto. Per questo Rose e Ben partiranno alla ricerca di una realtà alternativa in cui possono essere ancora felici. Una realtà silenziosa, perché entrambi i bambini sono sordi e questo gli permette di percepire ciò che li circonda in modo completamente diverso dagli ‘udenti’. 



Non ci sono rumori e voci a prendere il sopravvento nelle loro giornate, decidendo a chi o a cosa prestare attenzione. Ed è proprio con questo ovattato incedere nelle due New York (reso magistralmente dalla fotografia di Edward Lachman) che Rose e Ben ci fanno entrare nella loro percezione della realtà e pian piano il ritmo, che ci è sembrato fin troppo lento nella prima parte del film, diventa perfetto per poter osservare le ‘meraviglie’ che si annidano nelle scene da film muto che Haynes ci offre. E se, in alcuni momenti, ci sembra che lo stesso Haynes se ne renda conto, compiacendosene un po’ troppo, ora sappiamo di assistere a un film in cui trama e ritmo sono secondari. È l’immagine, gli scatti, le carrellate che il regista ci offre a diventare auto-significanti. Penso per esempio alla scena che si svolge nel museo del Queens, dove Ben scopre l’immenso plastico della città di New York cui la nonna si è dedicata per decenni e in cui ha nascosto i frammenti della sua vita o alle visite parallele delle stesse sale del museo di storia naturale in cui Rose e Ben sentono per un attimo più vicina la loro idea di mondo.  




Il punto di osservazione che Todd Haynes sceglie per avvicinarsi alle stelle è certamente mirabile, poetico, profondo, ma sembra fare tabula rasa di quello dei personaggi, che esistono e si muovono per dimostrare la sua tesi, perdendo in spessore, apparendo in maniera assoluta e incontestabile buoni o cattivi, senza sfumature. È un peccato che forse nasce da quanto Haynes sentiva necessaria questa storia e che non ci fa dimenticare la sequenza di versi in immagine che il regista di Io non sono qui e Velvet  Goldmine ha creato per noi con un tocco lieve e smisuratamente immaginifico.


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