La stanza vuota di Tranströmer

C'è una poesia di Tomas Tranströmer che si è abbarbicata al cervello la prima volta che l'ho letta. Ero in una stanza ricolma di cose. Libri per lo più, appollaiati su scaffali azzurri che mal celavano lo sforzo di dover reggere tre (a volte persino quattro) file di volumi che si litigavano una scheggia di luce; la possibilità, infinitesima, che un umano si soffermasse proprio su di loro in quella policromia di dorsi colorati e li salvasse da una morte da asfissia e sovraffollamento. 


Il proprietario di quella libreria doveva essere un bulimico della lettura. Incautamente aveva messo assieme la più sconfinata e confusa raccolta di narrativa e poesia che avessi visto. Minute e preziose edizioni di Shakespeare di metà ottocento, giacevano accatastate su uno scaffale, stritolate da ardite costruzioni piramidali di narrativa in economica della metà degli anni '50 del Novecento. Libri dall'ampio e protervo formato, raccolte di memorie di viaggiatori della Terra e della mente, incombevano su prime edizioni in lingua inglese di J. M. Coetzee, Saul Bellow, Nadine Gordimer, Nick Hornby, Alice Munro e Hanif Kureishi ricoperte da uno strato di pellicola trasparente logora e inutile. Favole, edizioni da collezione di Topolino, saggi su Max Perkins, trascrizioni di discorsi di premi Nobel, oscuri epistolari di John Keats e versioni su versioni dello Zibaldone di Giacomo Leopardi. In un angolo della stanza c'era una poltrona di pelle bordò, impunturata con bottoni d'ottone umiliati dal tempo, sulla cui seduta erano rovesciate decine di volumi misti a taccuini dai colori più vari, gonfi di appunti, foglietti, fiori e foglie essiccate, ciocche di capelli, cartine di gomme Brooklyn arrotolate le une nelle altre. Due lavagne di ardesia si aggrappavano alla parete ai lati dell'unica finestra della stanza, ricolme di scritte, minute e fitte, come se il loro creatore fosse un ammaestratore di formiche albine che costringeva a arrampicarsi sulle lavagne per puro sadismo, visto che il loro incolonnarsi orizzontalmente sembrava ai miei occhi privo di qualsivoglia senso. 


Stordito e ammirato mi sedetti su un pouf ai piedi della poltrona, paralizzato dall'indecisione. Con cosa avrei iniziato il mio banchetto? Un libro dal candore rigoroso e dalla corazza rugosa, si appollaiò ai bordi delle mie scarpe e scelse per me. Lo sollevai e strizzai gli occhi per scorgerne il titolo nella penombra in cui la stanza si stava improvvisamente ritirando, come se i suoi molti occupanti avessero deciso di spegnere il sole di un mattino autunnale per vendicarsi del loro spavaldo collega che si era fatto strada fra le mie mani. Poesia dal silenzio, era questo il titolo della raccolta di Tomas Tranströmer che s'impose ai miei occhi. Aprii il volume trattenendo il fiato, sarebbe stata all'altezza di quella stanza? E io, lo sarei stato? La verità, mi chiesi, ha bisogno di tutta questa scelta? 

Tomas Tranströmer

'La verità non ha bisogno di mobili. Ho fatto un giro dentro la vita e sono tornato al punto di partenza: una stanza svuotata'. [1]


[1] - dalla raccolta Poesia dal silenzio - Colui che vede nel buio 1970 - Crocetti editore 2000.  

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