Ritrovarsi fra i personaggi di John Maxwell Coetzee

Una pioggia cattiva. È questo il primo ricordo di quella giornata.
Bagnato fin dentro lanima entro nel foyer di un teatro milanese. In mano stringo un libro, forte.
È un libro piccolo, poco più di cento pagine, la storia di un ragazzo che cerca di racchiudere in sé almeno due vite e seguirle in parallelo. Tutto sembra andare bene, finché accade qualcosa e lo specchio che il giovane nasconde sotto il bavero del buon senso altrui, esce allo scoperto e gli fa vedere a cosa sta rinunciando.

Il titolo del libro è Gioventù, lautore è John Maxwell Coetzee. Non è il più famoso fra i suoi libri, il più premiato o il più apprezzato dalla critica. Se chiedessimo ai lettori di Coetzee di ricordare un suo titolo sentiremmo citare Vergogna, Elizabeth Costello, Aspettando i barbari. Tutti romanzi importanti, solidi, espressione dellacume narrativo di Coetzee. Eppure è Gioventù che mi vedo stringere fra le mani a trentanni, quando tutto mi diceva che sarebbe stato inutile fare ciò che più desideravo. Sono sempre arrivato in ritardo alle scelte davvero importanti per compensare la velocità con cui prendevo quelle sbagliate. Cosìquel libro che avevo tenuto in mano tante volte senza aprirlo, si mise a bussare aggressivo alla corteccia dei miei pensieri.
La copertina la posso descrivere a memoria. Base bianca, come tutte le edizioni Einaudi, un riquadro in alto con una riproduzione di una foto di Steve McCurry che rappresenta delle cabine colorate, di quelle che un tempo si usavano sulle spiagge per cambiarsi il costume bagnato. Dentro il libro è un susseguirsi di sottolineature, note a margine, domande. Carovane di domande che questo romanzo ha fatto zampillare dal profondo delle mie certezze. Se siete fra quei lettori che non oserebbero sottolineare un libro nemmeno a matita o che riterrebbero possibile piegare il bordo di una pagina a mo' di orecchia, Gioventù non è il libro che fa per voi. La tentazione di violare queste regole sarebbe talmente forte da costringervi a peccare dicorruzione di pagina.  
Gioco con il pollice con una delle tante orecchie del libro, mentre mi aggiro gocciolante nel foyer del teatro.Vedo un uomo dal fisico asciutto, vestito con un abito nero che sembra inghiottirne il corpo. Solo la testa spunta dal colletto di una camicia grigia. È lui: John Maxwell Coetzee. Un pizzetto brizzolato, due occhi stretti, le palpebre sbattono a ritmo cadenzato, come quelle di un geco curioso di tutto ciò che osserva e al contempo distante, ancestralmente’ lontano dallamabile bizzarria di chi lo circonda che per lui è solo materia prima da personaggio.

Stringo il libro ancora più forte, lo trasformo in un tubo di carta e con quello mi avvicino alluomo che contiene lo scrittore o allo scrittore che si nasconde nelluomo a seconda di quanto sia proustiano il mio pensiero. Il coraggio sembra cedere in quella sera di luglio della Milanesiana, sento che il mormorio in sala cresce, se Elisabetta Sgarbi salirà sul palco, lui scomparirà e io non avrò più il coraggio di chiederglielo. Mi sento stupido, incapace, mi sento il postino Massimo Troisi davanti a Pablo Neruda, ma Coetzee non è Neruda, la sua irrequietezza lo scrittore sudafricano la tiene imprigionata dentro. Mi dico che gli farà piacere, a quale scrittore non farebbe piacere autografare un proprio libro a un lettore devoto?

Mi avvicino. Circumnavigo linterprete che cerca di intrappolarmi in un angolo e mi rivolgo al mioscrittore. Glielo chiedo, tento di raccontargli perché sono lì a frappormi fra lui e il palco. Lui sbatte le palpebre, sono un impercettibile rumore di fondo nel solco della vita. Un attimo ed è scomparso, il libro ènelle mie mani, firmato da Coetzee sotto una frase di Oscar Wilde che Coetzee stesso cita nel romanzo e che io ho trascritto fedelmente«Non c’è verità più profonda dellapparenza».


Le luci si spengono in sala. Il preciso Stefano Salis, subentra a Elisabetta Sgarbi, per spiegareperché il tema della Milanesiana 2016 sia la vanità. Vizio o dote necessaria per uno scrittore? Dovrebbe esistere un pudore nella scrittura? Una punta, dice Salis, una punta di vanità è necessaria a uno scrittore, a meno che non sia solo la sommità di un iceberg. Quanta ne avrà Coetzee? La storia che legge alla sala è quella di una donna non più giovane che fa di tutto pur di non dimostrare la sua età. Vanità difensiva.
Mi guardo attorno nel riverbero delle luci del palcoscenico. Qualcuno dei presenti starà provandoquellemozione dirompente che ho sentito io mentre leggevo GioventùLa consapevolezza che un estraneo,a distanza di migliaia di chilometri, ha scritto proprio di te?
Oh, sì, qualcuno, di certo.

Commenti

Post popolari in questo blog

Un giorno come questo di Peter Stamm

L’ansia di fare, sì, ma di chi è la colpa?

Nessuno, nemmeno la pioggia, ha così piccole mani