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Visualizzazione dei post da luglio, 2018

La musica delle parole di Emily Dickinson interpretate da Terence Davies

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“Non mi piace il montaggio veloce, è come il cibo poco nutriente di un fast food. Per questo faccio lunghi piani sequenza: quando si è obbligati a guardare si cominciano a intravedere quegli ‘attimi fuggenti’ che nascondono un senso più profondo”. È così che Terence Davies descrive il suo lavoro come regista ed è così che riesce a far intravedere allo spettatore la meraviglia che si nasconde persino nel pulviscolo sospeso in una stanza che, svegliato dalla luce, può mutarsi in un mantello di gioia . Il tocco leggero e pungente di Davies l’abbiamo imparato ad apprezzare con La casa della gioia ( The House of Mirth) , pellicola del 2000 ispirata all’omonimo romanzo di Edith Wharton del 1905, storia di una giovane donna schiacciata dall’ipocrisia dell’alta società newyorkese dei primi del Novecento, ma è con A quiet passion , storia ambientata nella seconda metà del XIX secolo ad Amherst nel New England, in fazzoletto di terra su cui sorge la casa di Emily Dickinson, che non potremo

La voce del silenzio, soggiorno presso l’Hotel Silence di Audur Ava Olafsdottir

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Vi è mai capitato di pensare al suicidio? E se sì, come lo fareste? Un salto nel vuoto, seduti in una macchina a respirare i gas di scappamento, in una vasca mentre dai vostri polsi la vita si diluisce? Jonas Ebeneser, il protagonista del romanzo Hotel Silence dell’autrice islandese Audur Ava Olafsdottir, vorrebbe farlo con un fucile come ha fatto Hemingway, perché, come lui, è arrivato alla conclusione che sia meglio « andarsene in un bagliore di luce, che avere il corpo consunto e vecchio e le illusioni disperse ». Sull’orlo dei cinquant’anni, con una ex moglie che lo ha sposato con un inganno e una madre che si è persa nei meandri della demenza senile, Jonas si sente solo, perso e inutile, così decide di lasciare l’Islanda per compiere il suo destino in un paese del mediterraneo appena uscito da una guerra. Ma se si può essere sicuri di non avere più nessun senso e che il mondo starebbe meglio senza di noi, questo non vuol dire automaticamente essere pronti a morire. È

Non siamo ancora pronti a diventare un prodotto, parola di Mark Rothko

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Se vi capitasse di visitare la Tate Modern a Londra, andate al secondo piano, dove ci sono le rotazioni delle collezioni permanenti della grande galleria di arte moderna che la città ha ricavato riqualificando una centrale elettrica. Sul vostro percorso apparirà una stanza con le luci soffuse dove sono appesi grandi dipinti dalla forma quadrata in cui il rosso nelle sue varianti più sanguigne e cupe si fronteggia con neri dagli accenti violacei. Al centro delle sala ci sono due panche di legno, sedetevi su quella che preferite, fate silenzio, osservate e ascoltate, quei quadri hanno molto da raccontarvi.  Si sono fatti compagnia fin dalla nascita. Fin da quanto il loro creatore, Mark Rothko, ormai cinquantenne, li ha creati su commissione per il Four Season di Park Avenue a New York fra il 1958 e il 1959, quando la sua opera aveva iniziato ad attirare l’interesse dei collezionisti per i suoi luminosi arancioni e gialli, in un periodo in cui un gruppo di autori che potremmo de

Jonathan Franzen e lo scrittore un-social

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Qualche giorno fa stavo leggendo un romanzo in cui il protagonista inizia a documentarsi sugli scrittori che hanno tentato il suicidio. Ciò che lo attrae non è il motivo che li ha spinti a fare questa scelta, quanto il metodo che hanno utilizzato per porre fine alla loro vita. Hemingway, Pavese, Plath, Woolf, molti sono gli scrittori che hanno voluto decidere quando e come chiudere con la loro vita. Mi sono domandato subito quanti di noi riuscirebbero a fare lo stesso con il loro profilo sui social che oggi sembra rappresentarci molto più del nostro involucro di carne e ossa.  Ognuno rinchiuso nella sua bolla di ‘amici’ preselezionati dalla Rete per farci conoscere solo chi la pensa come noi, chi ha le stesse idee, passioni, valori, tanto da illuderci che l’umanità non è altro che un nostro riflesso, che siamo la maggioranza e la maggioranza ha sempre ragione. Sentirsi accettati è importante, è uno dei primi bisogni che sviluppa un essere umano, fin da bambino, da quando reg

La libertà di cercare l’orrore secondo Pietro Grossi

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«L’orrore non sta nella consapevolezza della sua esistenza, ma nella sua capacità mimetica». In questa frase è racchiuso il gorgo in cui Pietro Grossi risucchierà i lettori con il suo nuovo romanzo ( Orrore - edito da Feltrinelli). Lo farà utilizzando la sua maestria nel bilanciare ritmo e indagine psicologica, forgiando una storia difficile da catalogare, sospesa fra il thriller psicologico e il romanzo di formazione (anzi di evoluzione). Abbiamo incontrato Pietro Grossi per entrare nelle viscere di una storia che, fin dalle prime pagine, vibra di una forte inquietudine, un’inquietudine che divora il protagonista e lo porta a seguire le tracce di un mistero. Siamo di fronte a una ricerca diversa da quella che abbiamo trovato ne II Passaggio (Feltrinelli - 2016), non solo per esiti, ma anche per morbosità. Il protagonista di questa storia sembra essere spinto dal desiderio di legittimare le sue ombre invece di reprimerle.  Penso che questo romanzo rappresenti un’evo