Qualcosa è cambiato? Manie e speranze del libro italico


Era lo scorso dicembre ed ero a Stratford Upon Avon, vorrei dire a percorrere i sentieri del bardo in occasione dei 400 anni dalla sua scomparsa, ma di fatto ero lì per discutere di interculturalità e dei suoi tanti vantaggi con persone che di lì a pochi mesi si sarebbero pronunciate sull’uscita dell’UK dall’Unione Europea, facendo della questione mera semantica. Ovviamente non si poteva lasciare il suolo britannico senza un giro fra le sue librerie. E lì, messo in bella mostra su una mensola di quercia, riconosco il nome stampato sulla copertina di un romanzo (The story of lost child) che raffigura paesaggi partenopei. 

Avete indovinato, parliamo di Elena Ferrante che dopo essere diventata un caso in Italia, ha abilmente superato confini e fili spinati che oggi li presidiano, arrivando non solo in UK, dove il serio e composto Guardian si è esposto sui libri della Ferrante («You could spend your life rereading these books, and continually find new aspects of them to speculate on and consider. In fact, I intend to do just that»), ma anche in USA dove il New York Times l’ha definita: «one of the great novelists of our time». 


E se qualcuno ha tirato in ballo rocambolescamente Dostoevskij, non si può negare l’impatto globale che ha avuto questa autrice e i suoi romanzi. Ciò che è interessante scoprire è che questo non è più un caso isolato. Come sintetizza Repubblica in una delle sue inchieste, l’Associazione Italiana Editori (AIE) ha appena pubblicato un ebook Mercanti di storie. Rapporto sull’import/export di diritti 2016 da cui risulta che le case editrici italiane hanno venduto nel 2015 diritti di edizione per 5.914 autori con un incremento di più del 10% rispetto all’anno precedente. 
Qualcosa è cambiato? Perché mercati che in passato non prendevano in considerazione autori italici, ora iniziano a tradurli e (addirittura) a promuoverli? 

Forse perché i nostri autori stanno sempre più allineando i loro stili a quelli anglosassoni, “rubando” dai grandi signori del ritmo (Connelly, Follett, Deaver, King), riuscendo però a tipizzarli nel calderone culturale italico. Per questo, personalità del mondo dell’editoria come Marco Vigevani (uno dei più famosi agenti letterari italiani) ci dicono che generi come il noir diventano sempre più appealing per il mercato europeo (Francia e Germania). Meglio ancora in UK, dove all’ultima London Book Fair si è parlato di boom della letteratura made in Italy, con trattative già aperte per alcuni finalisti della settantesima edizione del Premio Strega. 


Poi, oltre la terra di mezzo, c’è la via della seta di “baricchiana” memoria che conduce i nostri autori nel mercato editoriale più grande del mondo, quello asiatico, che nel 2015 ha assorbito il 14% della vendita di diritti d’autore di scrittori italiani. Se è chiaro che i lettori asiatici di libri italiani sono una nicchia di una nicchia, su più di 4,4 miliardi di abitanti che ha oggi il continente asiatico, la più infinitesimale delle nicchie potrebbe apparire a un editore italiano un nuovo immenso mercato vergine di lettori che aspettano solo le sue pubblicazioni per dare un senso alla loro vita. Ma i nostri autori quanto conoscono i gusti degli abitanti del continente asiatico? E anche conoscendoli, si può scrivere su commissione basandosi solo sul trend dei gusti di lettori talmente potenziali da risultare, almeno per ora, invisibili? 


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