Intervista a Howard Jacobson. Shylock, la magnanimità di Shakespeare e lo scrittore rumoroso

Incontrare Howard Jacobson è come incontrare un pezzo di letteratura inglese, quella che l’autore (si capisce immergendosi nei suoi romanzi) ha letto e riletto fin dagli anni Sessanta quando il giovane Howard frequentava il Downing College all’Università di Cambridge. Mentre mi avvicino al suo ciuffo bianco e al suo volto allungato, quasi fosse stato Jacovitti a disegnarlo, mi viene in mente la prima volta che l’ho incontrato. Festivaletteratura 2011, Mantova. 


Mi piacerebbe cominciare questa chiacchierata con Howard Jacobson, in Italia per presentare il suo Il mio nome è Shylock (edito da Rizzoli nella traduzione di L. Pignatti), proprio da questo ricordo. Era un sabato pomeriggio dei primi di settembre, il Festival era alla sua quindicesima edizione e faceva caldo, quel delizioso caldo umido che solo Mantova e il Bormio sanno offrire, quello che ti fa sentire come Willy il coyote quando gli sta per finire in testa l’ennesima incudine e stremato non si sposta di un millimetro accettando il suo destino. In quel pomeriggio mantovano eravamo in molti a prepararci a ricevere in testa l’ennesima incudine d’afa mentre, stesi sull’erba, aspettavamo Howard Jacobson e Moni Ovadia, convinti di non riuscire a comprendere ciò che ci avrebbero detto. E invece: miracolo! Parole come scrosci d’acqua gelida, attivarono cervello e risate e fu il più bel pomeriggio di quell’edizione del festival.

Quanto è importante per Howard Jacobson essere un performer oltre che uno scrittore e quanto è necessario per uno scrittore oggi sapere intrattenere i suoi lettori dal vivo oltre che con le parole stampate sulle pagine dei suoi libri?
Saper intrattenere, coinvolgere e divertire le persone è necessario. Dovrebbe essere necessario, sebbene molti autori non amino questa parte del nostro lavoro. Per me è anche molto piacevole, amo parlare alle persone del mio lavoro, è una parte sostanziale dell’essere scrittore. Molti immaginano lo scrittore come un uomo chiuso in una stanza in penombra, concentrato sulle sue emozioni, in attesa dell’ispirazione che anche un sospiro può spezzare. Non è il mio caso, io sono uno scrittore rumoroso, a volte le persone s’infastidiscono per quanto sono rumoroso, spesso inizio a scrivere con la mano nell’aria e vivo, interpreto i miei personaggi. Per me è come girare un film. Quindi sì, sono uno scrittore che fa rumore e ama il rumore. Intendiamoci la stanza dove scrivo è silenziosa, ma è importante che la vita che passa davanti alla mia finestra faccia irruzione ogni tanto. Questo mi aiuta a immaginare e a scrivere. E poi rileggo ad alta voce ciò che scrivo, alla ricerca di ogni vocabolo che non sia in armonia con la frase in cui è contenuto. 


Se lo trova, lo cancella anche se le è costato una giornata di lavoro?
Se una parola non ci sembra quella più adatta alla storia, al paragrafo che stiamo leggendo, non è un problema del lettore ma dello scrittore. Quindi sì, la cancello e capita spesso, anche perché quando scrivo sono troppo preso dalla strada che ho scelto per rianalizzare immediatamente tutto in maniera metodica. Io scrivo caoticamente e non so dove sto andando quando inizio una storia e mi piace che sia così. Mi considero uno scrittore organico, che si adatta alle sensazioni, agli umori, ai luoghi che vive mentre sta scrivendo. Mi sento come se fossi su un palcoscenico e stessi interpretando il copione che io stesso sto creando in quel momento. 

In questo girovagare mentale si è mai perso in un luogo da cui non sapeva uscire?
Certo, può accadere, è accaduto. Allora mi fermo, cerco di liberare la mente e ricomincio. Spesso leggo la prima frase del libro che sto scrivendo. Nella prima frase c’è il libro, se non è così forse bisogna cambiare storia. 

Qual è il suo rapporto con il teatro? Prima mi ha fatto una descrizione del suo processo creativo molto “teatrale”, ma ho letto in una sua intervista che quando si siede a teatro per assistere a una rappresentazione non desidera altro che scappare
Il teatro da spettatore mi fa sentire fuori posto. Seduto al buio ad ascoltare senza interagire? Non è il mio ruolo, io sono fatto per stare sopra il palcoscenico. Ho creato un personaggio per esprimere questa sensazione in uno dei miei primi romanzi. Era la storia di un uomo che vive nelle campagne inglesi e va a Londra per scoprire la grande città. Una delle prime cose che fa è andare a teatro, ma pochi minuti dopo l’inizio dello spettacolo scappa fuori, tremendamente annoiato. La commedia che sta guardando è di Harold Pinter. Mai scegliere una commedia di una persona che si conosce e che legge i tuoi libri. Harold Pinter si arrabbiò molto, così quando ci incontrammo a un party, era il 1984, venne verso di me e mi disse: «Funny joke», ma non sembrava affatto divertito. Non fu facile convincerlo che era il mio personaggio a pensarla così e non io, comunque alla fine siamo rimasti buoni amici. Il teatro cui sono davvero interessato, per citare Shakespeare, è quello della mia mente. Ecco, leggere i testi di Shakespeare costruiti per il teatro, quello è davvero affascinante. È impossibile annoiarsi.



Parliamo allora dell’Hogarth project, che in occasione dei 400 anni dalla scomparsa del Bardo, ha chiesto ad autori come Margareth Atwood, Anne Tyler e lei di riscrivere e reinterpretare un testo shakespeariano. Qual è stata la sua reazione davanti a Il mercante di Venezia e ha scelto lei questo titolo? 
Non ho scelto io di lavorare al Mercante di Venezia. E quando me lo proposero dissi no.
Troppo scontato. Non volevo che scegliessero me solo perché si parlava di un protagonista ebreo. Non è colpa mia se sono uno degli autori inglesi che ha scritto di più sull’ebraismo. Ogni volta che finisco un romanzo su questo tema mi dico: è l’ultimo che scrivo e poi ne comincio subito un altro sul mondo ebraico. Mentre lavoravo ancora al mio romanzo intitolato J che dovrebbe uscire a breve anche in Italia, mi chiamarono per propormi il progetto su Shylock. Prima di rifiutare definitivamente decisi di rileggere il testo, che non mi era mai piaciuto particolarmente e accadde che me ne innamorai. 

Cosa le ha fatto cambiare idea? 
Quando si legge Il Mercante di Venezia a scuola non si fa altro che parlare di antisemitismo, ma Shakespeare non era certo un antisemita, per esserlo bisogna avere una mente limitata, governata da pregiudizi e incapace di aprirsi alla diversità che la circonda, impensabile per un autore che ha dedicato tutta la sua vita alla ricerca dell’uomo dietro il personaggio. Leggendo il testo mi resi conto di quanto Shakespeare abbia investito su questa storia, rendendo Shylock il più intenso e interessante fra i personaggi di questo testo. Shylock è una persona dalle forti passioni (per la moglie che ha perso, per la figlia, per le ingiustizie che subisce). Per questo ho deciso di creare un altro Shylock con cui l’originale potesse parlare oggi. Era impossibile ambientare la mia versione della storia ai nostri giorni senza la presenza di Shylock e non era possibile crearne un altro, nessuno avrebbe retto il confronto con l’originale. Così ho portato Shylock, quello shakespeariano, qui fra noi affiancandogli un ebreo contemporaneo con cui parlare. Questa penso sia la parte più interessante del mio romanzo.  


Ho letto che la sua prima pubblicazione (era il 1978) fu proprio dedicata a Shakespeare. S’intitolava Shakespeare’s Magnanimity. Era davvero così magnanimo? 
Oh, sì, Shakespeare’s Magnanimity è un libro che ho scritto con un amico di Cambridge. Fu un vero libro anti-teoretico, fu scritto molto prima degli studi su Shakespeare che oggi dominano le analisi letterarie su questo impareggiabile autore. È stato uno dei primi libri a soffermarsi non tanto sulle opere di Shakespeare ma sui suoi personaggi, qui stava la sua magnanimità. D’altronde Shakespeare non è mai stato un teoretico, lui pensava a personaggi vivi, in carne e ossa, per questo lo studio fu sul linguaggio che questi personaggi/persone usavano 400 anni fa. 

Ne Il mio nome è Shylock pospone la storia de Il Mercante di Venezia di 400 anni. Eppure nulla sembra cambiato. Desideri, passioni, odi e paure sembrano essere le stesse. L’uomo da questo punto di vista non si è evoluto? 
Sì, penso che sia proprio questo il tema forte del libro, le persone non sono cambiate e i problemi non sono cambiati, uno dei crucci di Shylock era come rapportarsi all’astio altrui, astio che nasceva non da eventi concreti, ma presunti, collegati al suo appartenere a un gruppo diverso da quello dominante. Gli ebrei sentono molto questo tema, perché sentono atavicamente l’odio ancestrale che ha caratterizzato i loro rapporti con i cristiani. Eppure i cristiani nascono dagli ebrei, quindi quando i cristiani nei secoli si sono scagliati contro gli ebrei, si sono scagliati contro i loro genitori. Come in una famiglia, non si possono scegliere i propri genitori né i propri figli, ma non si possono nemmeno ignorare e se lo si fa i risultati non sono mai entusiasmanti. Certo, abbiamo sempre bisogno di dare la colpa della nostra infelicità a qualcun altro, ma alla fine, quando lo abbiamo fatto, ci sentiamo davvero migliori? Non stiamo già cercando qualcun altro da incolpare?


In un’intervista al «Guardian» ha detto che non ha una routine nella scrittura, ce lo anticipava anche all’inizio della nostra chiacchierata. Nemmeno un feticcio comportamentale, possibile? 
Si limita a stare seduto e a scrivere? 
Ho uno studio nella mia casa a Londra dove scrivo. Vivo a Soho, un luogo assai rumoroso, ho bisogno di sentire i suoni della città che s’infiltrano nel mio silenzio, per questo non potrei mai scrivere in una casa di campagna. Per essere uno scrittore hai bisogno della vita, anche se a volte devi rinunciarvi per scrivere. Questo strano ossimoro, va bilanciato con continue e inattese intrusioni che ti ricordano di cosa stai scrivendo. 

Rimpiange qualcosa nella sua carriera di scrittore?
Mi sarebbe piaciuto cominciare a scrivere molto prima e soprattutto trovare la mia strada molto prima. Ci ho messo troppo per scoprirla, ero intorno ai 40 anni. Ero troppo arrabbiato per capire come era il mondo e poi ero uno snob che voleva staccarsi dal suo background ebraico di Manchester per raccontare storie della upper class di Cambridge. Volevo scrivere romanzi complicati e per una nicchia di lettori eletti. Soggetto sbagliato. Cercavo di diventare il tipo sbagliato di scrittore, sbagliato per cosa avevo davvero dentro da dire. Sì, mi sarebbe piaciuto scoprirlo molto prima. 


E se non fosse diventato uno scrittore?
Mi sarebbe piaciuto essere un tenore italiano, come Mario Lanza. Mi sarebbe piaciuto lavorare nel mondo della musica e padroneggiare il modo con cui tenori come Lanza riuscivano a esprimere le loro emozioni e certo mi sarebbe piaciuto avere il loro successo. Ma mi piace fare anche quello che faccio. 

Cosa sarebbe accaduto se non avesse raggiunto il successo, avrebbe continuato a scrivere?

Sì, penso sì. Sebbene penso che uno scrittore non si senta mai abbastanza “di successo”. Se scoprissi anche una sola persona che non ha letto un mio libro, farei di tutto per farglielo leggere, per aumentare il mio “successo”, perché il fine ultimo dello scrittore è essere letto dal più alto numero di persone. Uno scrittore, uno serio, sarà sempre frustrato. Nel momento in cui uno scrittore è soddisfatto di cosa ha fatto, di quello che ha raggiunto, smetterà di essere uno scrittore, anche se continuerà a pubblicare libri. È la necessità di trovare qualcosa che ancora non si possiede nel mondo che ci circonda (che sia una risposta, una rivelazione o un’idea) a rendere un uomo uno scrittore. Per questo spero di essere ancora insoddisfatto e frustrato a lungo, per tutta la vita spero.



Commenti

Post popolari in questo blog

Un giorno come questo di Peter Stamm

L’ansia di fare, sì, ma di chi è la colpa?

Nessuno, nemmeno la pioggia, ha così piccole mani