L’illuminazione? Siamo pronti, ma che sia lenta e duratura.
Cosa spinge un uomo ad iniziare a
scrivere? Perché privarsi di tante sezioni della propria vita pur di rielaborare alcuni spiragli di quella altrui? Necessità di esprimere se stessi, volontà di
richiamare l’attenzione dei lettori su uno specifico tema, voglia di notorietà,
di essere al centro dell’attenzione senza esporsi fisicamente, ma “soltanto”
mentalmente. Tutte risposte possibili e in parte giuste, ma in tempi in cui
l’illuminazione, la folgorazione e l’impegno artistico sono così rari, perché
ad essi seguono sempre anni di duro lavoro, si deve tentare di fare di
più.
Un articolo di Pierluigi Battista, apparso su LaLettura lo scorso 20 maggio, dava una interpretazione molto
interessante del successo di pubblico dell’ultimo salone del libro di Torino, successo
che sembrerebbe mal sposarsi con il calo delle vendite in Italia e l’emorragia
di lettori davanti al quale i dati Nielsen sul primo trimestre 2012 ci ha messo di fronte. Battista
sostiene che non sia un’incongruenza, poiché la lettura è (e resterà sempre) un
atto individuale, di solitaria e silenziosa concentrazione, mentre l’evento,
che sia mostra del libro o altro poco importa, si impronta sulla coralità, sull'applauso, sul potere del parlato e soprattutto del “visto”. Se si legge
stesi sul letto di casa propria, chi mai lo verrà a sapere? Ma se si applaude
tutti insieme alla presentazione dell’ultimo best seller (ahimè nel 2011/2012
molti “best” autoproclamati e pochi “seller”) la situazione
cambia completamente, si assorbe un po’ della ribalta altrui e tanto può
bastare.
In parte condivido la posizione di Battista, l’esigenza di visibilità
è diventata la maledizione del nostro tempo, macina, come una schiacciasassi
emozionale, ogni azione che si frappone fra il palco e la nostra platea di
contatti. Virtuali o inesistenti, non ha importanza, è l’illusione di essere
ascoltati che ci appaga. Ed è qui che si nasconde, a mio parere, un’ulteriore
evoluzione e un nascente pericolo per la lettura. Se leggere è tentare di
ascoltare se stessi attraverso un’altra storia, e questo dimostra come
l’esigenza di ascolto non trovando una soddisfazione nella vita reale abbia
avuto bisogno di dispensatori di storie (gli scrittori) per cercare un altro
mondo in cui esprimersi e sentirsi apprezzati, magari immedesimandosi con il
protagonista di turno, l’esasperazione di questo bisogno sembra portare allo
sgretolamento della lettura stessa. Perché? Forse perché con l’esigenza di
ascolto non è cresciuta anche la capacità di valutare l’importanza, la
necessità per gli altri delle cose che abbiamo da dire. Francis Scott
Fitzgerald diceva «Non si scrive per dire qualcosa; si scrive perché si ha
qualcosa da dire.» La necessità impellente dello scrittore di raccontare e
dell’essere umano di raccontarsi dovrebbe essere supportata da una altrettanto
impellente necessità di dire davvero qualcosa, di arricchire, di condividere, perché
no, di contrastare, ma per arrivare ad uno scopo e non per il puro gusto di
mostrarsi in mezzo al pollaio sempre più gremito e urlante che confondiamo a
volte con la libertà di espressione.
Sempre Fitzgerald sosteneva che
un romanzo per essere considerato tale dovrebbe provocare effetti “lenti ma
duraturi” nel lettore. Ecco questo è un altro elemento interessante della
nostra corsa all’auto-ascolto. Non si punta più a qualcosa che resti o che
cambi, ma a “qualcosa”. Allora ben vengano le migliaia di presenze alle fiere
del libro e ben vengano anche i tanti libri pubblicati che si dibattono nello
stagno sempre più basso dei lettori italiani alla ricerca anche di un solo
compratore che ne giustifichi l’esistenza, ma che la nostra attenzione si
fissi anche sui pesci più lenti e silenziosi, che spiccheranno nell'esigenza di
prevaricazione che impera, affinché qualcosa di duraturo attecchisca anche in
noi e perché no, anche negli scrittori che ci aspettano al varco.
Trovo la frase di Fitzgerald di una "illuminante" essenzialità.
RispondiEliminaLa necessità delle persone di essere al centro di un qualsiasi evento mediatico (reale o fittizio che sia) si è talmente potenziata da diventare insostenibile e chiunque ha un lavoro che lo esponga al rapporto con l'esterno se ne accorge immediatamente.
Mi fa venire in mente un altro articolo apparso sul Corriere in cui Toni Morrison identificava l'eccesso di egocentrismo come uno dei problemi degli scrittori contemporanei americani.
Laura