Il mestiere dell'editore. Il punto di vista di Carmine Donzelli


Mondadori, Gems, minimumfax, Sellerio, Einaudi, mentre costeggio gli stand dell’ultimo Salone Internazionale del Libro di Torino sono le 10 del mattino e l’atmosfera fra i padiglioni è quella che preferisco. I corridoi sono semivuoti, il Salone ha appena aperto, le orde (meno male che esistono ancora) di lettori bulimici sono ancora in fila fuori dai padiglioni per i biglietti, gli standisti hanno ancora un volto disteso e ostentano sorrisi da chiacchiere davanti a un caffè, che in molti hanno stretto in mano, in un bicchierino di plastica marrone, come se da quel piccolo talismano dipendesse la loro sopravvivenza. E poi ci sono i libri, migliaia, che attendono mani e occhi vogliosi di scoprirli. Di mattina sembrano più lucidi, più invitanti, pronti alla battaglia più dei loro editori. Centro di tutto il sistema editoriale, anch’essi sono di nuovo qui, per mostrarsi, sfidarsi, punzecchiarsi e naturalmente lamentarsi per il mercato che non tira. Ma è proprio così per tutti?
Per scoprirlo siamo andati a conoscerne uno che da più di vent’anni lotta sulle barricate della piccola e media editoria italiana: Carmine Donzelli, ideatore, fondatore e decisore della Donzelli editore.


Cominciamo dalla sua esperienza editoriale in Einaudi. Lei ha lavorato nella casa editrice dello struzzo dal 1972 al 1988, anni di grandi progetti editoriali, ma anche di cambiamenti importanti nell’idea di libro che proponevano gli editori, fino a vivere, negli anni ’80, uno dei periodi più critici dalla fondazione. Come è arrivato a lavorare in Einaudi e quanto la crisi dell’idea di editoria di Giulio Einaudi l’ha influenzata nella scelta di fondare una sua casa editrice? 
La crisi dell’Einaudi ha influito certamente sulla mia formazione, non sulla mia decisione di andarmene. Sono entrato in contatto con il mondo editoriale da ragazzo, non avevo ancora preso la laurea, ero allievo di Corrado Vivanti e mi sarei laureato con lui con una tesi sulla Storia delle Dottrine Politiche. Fu proprio Vivanti a invitarmi una sera a cena a casa sua e, in quell’occasione, mi fece incontrare Giulio Bollati, allora direttore generale dell’Einaudi; alla fine mi proposero di entrare in un nucleo redazionale che doveva occuparsi della storia d’Italia.
Perciò sono entrato nel mondo editoriale un po’ per caso, nel senso che se, prima di quella sera, mi avessero chiesto cosa intendevo fare nella vita, tutto avrei riposto meno che lavorare nell’editoria. Eppure la mia vocazione al “mestiere” era presente fin da alcune mie esperienze ai tempi del liceo: i giornalini scolastici, l’attenzione alla dimensione politico-civile, un ’68 vissuto in piena regola con una forma di coinvolgimento pressoché totale. C’erano tutti gli elementi che mi hanno portato poi a fare in Einaudi un’esperienza straordinariamente densa e forte, in un settore allora molto innovativo, quello delle Grandi Opere, cioè delle opere su progetto, su committenza editoriale. Il ruolo dell’editore non era semplicemente di certificare e ratificare materiali già esistenti, ma di costruire grossi progetti editoriali, contribuendo alla realizzazione attraverso il confronto diretto con gli esperti chiamati a collaborare.
A quel primo progetto presero parte i più grossi storici del momento e questo per un ragazzo di poco più di vent’anni rappresentò una scossa adrenalinica che mi permise di accumulare in breve tempo esperienze straordinariamente forti.
Poi nel 1982/83 ci crollò addosso la crisi in gran parte inaspettata, una crisi di dimensioni economiche profonde che mise a nudo difetti dell’organizzazione aziendale ed editoriale, portando a una prima messa in discussione del progetto editoriale.
Einaudi aveva in quegli anni assunto una posizione di egemonia sul panorama della cultura. Questo andava a cozzare però con un cambio ideologico e culturale complessivo che cominciava a mettere in crisi gli elementi di quell’egemonia.
La crisi modificò anche gli assetti interni, con un ricambio nei ruoli di comando e io fui velocemente sbalzato in primo piano con altri colleghi giovani chiamati a prendere la responsabilità dei settori di cui ci occupavamo. Fu un’ulteriore accelerazione del processo di crescita professionale di fronte alla quale la domanda era: quali necessità di cambiamento erano da apportare a un modello apparentemente così solido e di successo come quello einaudiano? Nel frattempo veniva avanti una discussione su cosa fare dell’Einaudi, su come modellarla rispetto alle esigenze future. Era una fase, metà anni ’80, in cui si era già consumata l’idea di una egemonia culturale della Sinistra italiana.


Ricorda un progetto particolare cui si dedicò in quel periodo? 
Ricordo quegli anni con l’intensità della ricerca di progetti nuovi, di un’innovazione profonda sul solco di quella tradizione culturale propria del marchio dello struzzo.
In quella congerie in cui non si era i soli a dare battaglia, si vinceva e si perdeva. Io con tutta onestà presi una batosta. Avevo fatto un’importante progetto su una Storia d’Italia Contemporanea, un progetto editoriale di grande opera di seconda generazione, un progetto che aveva caratteristiche culturali e intellettuali innovative che potevano essere una risposta alla crisi che in quel momento l’Einaudi stava attraversando. Vi fu una discussione interna molto vivace. Nella cruciale riunione che avrebbe dovuto varare il progetto io andai in minoranza e feci forse un gesto di eccessivo orgoglio. Tornato a casa scrissi velocemente una lettera di dimissioni. Non avevo pensato al dopo, non avevo fatto mai alcun altro progetto e il gesto mi fu rimproverato come sconsiderato.

Se n’è mai pentito?
No, devo dire che, col senno di poi, ne sono contento. Di sicuro in quel momento fu una sorta di salto nel vuoto, o meglio, in un vuoto relativo, a quel punto, quei sedici anni di lavoro avevano procurato una ricchezza di contatti, una densità, una qualità di relazioni personali che andavano ben al di là del puro ruolo professionale. L’esempio più clamoroso di questo lo si ritrova all’origine della Donzelli Editore… con Bobbio.


Proprio a Norberto Bobbio si lega uno dei grandi successi editoriali della Donzelli: Destra e Sinistra. Un piccolo saggio che oggi definiremmo “virale” con una tiratura straordinaria per una piccola casa editrice: 400.000 copie vendute solo nel primo anno dalla pubblicazione. Come nasce il rapporto di collaborazione con l’autore e come riuscì a “strapparlo” all’Einaudi?
Il rapporto con Bobbio era nato alla fine degli anni ’70, momento in cui ero stato incaricato di tenere i contatti con lui per seguire la pubblicazione dei suoi numerosi libri in Einaudi.
Naturalmente non mi ero limitato a questo, c’erano infatti degli interessi comuni. Lui sapeva che io ero interessato alla storia delle teorie politiche, che avevo studiato Gramsci e ogni tanto mi capitava di scrivere delle cose per mio conto, che poi gli portavo in lettura. Ero in una posizione che mi rendeva un suo mezzo allievo. Anni dopo mi trovai a leggere tre pagine scritte da Bobbio e compresi che avrebbero potuto diventare un grande libro, quello che poi fu Destra e Sinistra e che ebbe un notevolissimo successo editoriale. Bobbio mi fece faticare due anni prima di portare in porto quell’operazione, era pieno di dubbi, tentennamenti, criticità. Il tema lo affascinava ma lo rendeva anche molto guardingo. Spesso mi passava pagine con un’enorme quantità di correzioni nella sua grafia indecifrabile.

Quando finalmente arrivai nella mia casa editrice a Roma con le novanta pagine da cui partire, la riunione che ne seguì durò fino alle quattro di notte sulla tiratura del libro. Io ero per le 7 mila copie, i più prudenti miei collaboratori dicevano facciamone 3 mila. Queste erano le nostre aspettative. Il libro vendette nel giro di un anno più di 400.000 copie ed è rimasto credo l’esempio di best seller nella saggistica, primo assoluto per 50 settimane.
Giulio Einaudi rimproverò molto duramente Bobbio per aver scelto la mia casa editrice. Lui rispose che il libro forse non sarebbe esistito senza il lavoro svolto con me e che non lo considerava per nulla un tradimento alla Einaudi.
Nel 1994 incontrai Giulio Einaudi, che non vedevo da quando avevo lasciato la sua casa editrice. Quando mi vide, lui si girò da un lato, per cercare il sostegno di qualcuno, lo trovò in Walter [Barberis, ndc] e si diresse verso di me, poi voltandosi verso Walter gli disse «…ti sei fatto fregare da questo qui, caro Walter». Non disse nient’altro, non si rivolse a me in nessun modo. Ma io capii che era il suo modo per rendere onore alla mia scelta. Da quel momento la nostra amicizia ricominciò. Io mi considero immeritatamente o no appartenente a quella scuola. Naturalmente penso di aver messo del mio in una ricerca di innovazione molto profonda, questo insieme alla vocazione masochistica al lavoro prolungato, hanno fatto di me l’editore che sono.

Quante ore lavora al giorno?
In questo momento vado in casa editrice intorno alle dieci del mattino e ne esco alle otto di sera, ma le ore più importanti sono quelle nelle quali leggo e scrivo per conto mio tra le quattro e le sei del mattino. L’attività in casa editrice è dedicata ad altre incombenze. Anche il lavoro di controllo dei manoscritti in latino si svolge in quelle ore mattutine.

Se ne occupa ancora personalmente?
Certo, non ho mai derogato a questo. È una delle caratteristiche fondamentali della Donzelli Editore.


Cosa deve avere un testo per interessarla oggi?
Deve avere la capacità di offrire un’angolatura critica innovativa. Di essere non ripetitivo e di essere sviluppato secondo una scintilla intellettuale che possa essere comunicata con efficacia ai lettori. Quindi non ci sono regole fisse. Tranne in alcuni casi, come per la decisione degli ultimi anni di non pubblicare più romanzi di narratori contemporanei. 

Perché?
Perché non volevamo più continuare a regalare opportunità ai nostri concorrenti più grandi. Perché non avevamo la dimensione d’impresa e la statura per poter mantenere i successi che raccoglievamo e ci rimanevano solo i mezzi successi o gli insuccessi da gestire.
Nel campo della narrativa, noi siamo stati editori di premi Nobel come Coetzee, ma alcuni di questi casi ci hanno resi edotti. L’anticipo sui diritti d’autore negli anni è decuplicato, facendoci capire che non eravamo nella condizione di poter gestire questo tipo di progetti.

Cosa deve essere oggi un editore?
Un editore è un certificatore di qualità intellettuale. Lo si può definire in molti modi, quello che io preferisco è questo. Io ho di fronte una comunità di miei lettori di cui la casa editrice è l’avamposto operativo. È quella comunità che tu non devi mai tradire, interpretandone i bisogni intellettuali con rigore, qualità, cercando di essere all’altezza della situazione. Se non rispondi in maniera adeguata, la comunità ti risponde non comprando il libro. L’editore ha solo un bene da difendere: la sua reputazione. Reputazione che sta nel valore del marchio editoriale, nella sua capacità di segnalare alla sua comunità libri di qualità intellettuale che valga la pena di leggere.



Lei ha parlato spesso del connubio possibile tra l’editoria di progetto e il profitto. Come è possibile questo e quanto è realizzabile?
Non solo è possibile ma è essenziale ai fini di una valutazione della qualità dell’impresa editoriale. Non si deve tenere in piedi il conto economico e contemporaneamente fare buona editoria, si deve tenere in piedi il conto economico per poter fare buona editoria. La buona editoria ha la sua contropartita immediata, il suo riscontro è nella qualità del conto economico. Io faccio spesso un esempio semplice. Il mestiere dell’editore ridotto ai minimi termini si può descrivere in questo modo: lei viene e mi propone un libro straordinariamente bello ma straordinariamente difficile di cui possono esistere al mondo diciamo tre acquirenti. Faccio il bravo imprenditore e stabilisco quale sia la mia aspettativa di ricavo per compensare i costi di quel libro. Ne stampo tre copie, se le vendo tutte e tre sono andato in pari col mio conto economico. Ho intercettato i tre lettori potenziali e sono riuscito a soddisfare il loro bisogno di lettura a un prezzo equo, ho pagato i miei costi e avuto la mia remunerazione. Questo è il caso virtuoso.

Poi ci sono due casi non virtuosi. Il primo è se ne vendo due copie, invece che tre; in questo caso ho ecceduto nella valutazione delle potenzialità di quel libro, sbagliando nel merito della valutazione intellettuale. Ne pago il prezzo. L’altro caso è se dopo aver venduto tre copie qualcuno viene a chiedermene una quarta, in quel caso ho ancora sbagliato. Mi dovrò arrangiare a fare una ristampa che rende molto antieconomico il conto complessivo di quel libro.
Da questo esempio potrebbe sembrare che l’unico problema di un editore sia indovinare una tiratura, ma il vero problema è conoscere il proprio pubblico, avere la capacità di studiare le potenzialità che il libro offre, restituirlo al lettore nella migliore forma possibile, con un equilibrio di qualità, costi e prezzi che sia il più remunerativo possibile, in primis per il lettore e da questo punto di vista assumersi fino in fondo la responsabilità delle scelte che si fanno.
Altre vie non ne conosco. Altre vie sono l’editoria assistita. 

Senza dimenticare la qualità professionale del team a cui un editore si affida. È difficile contemperarla con il controllo dei costi? 
La qualità professionale di una casa editrice è l’elemento che meglio la difende rispetto a possibili elementi di criticità e quella che ne garantisce la continuità del rendimento. Questo è un aspetto che ho molto curato. Penso di aver messo in piedi un modellino aziendale virtuoso che non ha mai puntato sull’esternalizzazione delle funzioni essenziali di una casa editrice, mai dato dell’editing esterno in affidamento, mai concepito modelli di scelta di precariato assoluto. Anzi, dopo oltre vent’anni, avendo raggiunto un conto economico soddisfacente, la prima cosa fatta è stata stabilizzare le posizioni di lavoro interne alla casa editrice. 

Quante persone lavorano per la Donzelli editore?
Siamo una quindicina, è una struttura familiare.

Gianni Ferrari mi disse una volta «Tu sei un animale in estinzione, vuoi fare contemporaneamente troppe cose». Io la presi come una sfida e la storia della Donzelli editore lo dimostra. Il nostro è un modello di struttura aziendale pensata in funzione di un equilibrio di impresa, senza pensare di poter sfruttare le mucche grasse, nello stesso tempo avere costante attenzione alla continuità del rendimento. Il mio problema è non prendere mai meno di sette e mezzo.

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