Lo scrittore preoccupato di Elizabeth Strout


Esattamente un anno fa iniziavo a raccontarvi il mio ‘innamoramento’ per Elizabeth Strout e il suo Mi chiamo Lucy Barton, un romanzo in cui la protagonista (Lucy) racconta, in prima persona, una sua convalescenza in ospedale negli anni ’80. La degenza e le visite di una madre tutt’altro che convenzionale, costringeranno Lucy a un viaggio in se stessa da cui il narratore estrarrà per il lettore alcuni ricordi. Non sono ricordi felici, ma sono quelli più intimi, quelli che i personaggi della Strout sono così abili a nascondere agli altri e al contempo a vivisezionare continuamente per se stessi. Ricordi che rimbalzano su vite comuni e ben organizzate, come biglie d’acciaio in un flipper. 

La casa editrice Viking ha ora pubblicato in USA Anything is possible, una raccolta di racconti con cui Elizabeth Strout ridà vita al personaggio di Lucy Barton. Questa volta però il punto di vista si frammenta, accompagnando una moltitudine di personaggi che hanno in comune Lucy e il paesino (Amgash – Illinois) in cui Lucy è nata e cui ritorna suo malgrado. Con Elizabeth Strout, Lucy condivide la professione, entrambe scrittrici affermate, le origini, entrambe nate in un paesino lontano da tutto (la Strout è però nata nel Maine) e il piacere di camminare per ore nelle campagne intorno ai loro luoghi natii senza incontrare anima viva. Lucy diventa in Anything is possible una di noi. Spia la fauna umana che popola Amgash e tenta una loro classificazione accorgendosi che è impossibile. 

In un articolo di qualche giorno fa sul Guardian, Elizabeth Strout ci dice che proprio in questo, nella creazione dei suoi personaggi e dei punti di vista che essi possono far intravedere al lettore, si annida la sua passione per scrivere. Se la piccola Elizabeth camminava senza meta nei boschi del Maine, sentendosi più uno spirito che una persona, imparando così a osservare i particolari della Natura e a dilatare il tempo a suo piacere, crescendo ha iniziato a sentire la mancanza delle persone.  Si è cominciata a porre una domanda: “What did it feel like to be someone else?” Come ci si sentirebbe ad essere qualcun altro?  Su questa domanda si è incastonata l’ossessione per la scrittura di Elizabeth Strout. Non poteva accettare di vedere il mondo esclusivamente dal suo punto di vista, non era abbastanza. Per questo ha iniziato a crearne altri, sviluppando un’abilità a penetrare nei pensieri dei suoi personaggi, strato dopo strato, così da mostrarci la materia che impasta e sporca le loro vite: la paura.  Una paura compressa, urlata, usata come arma per colpire gli altri o se stessi, ma comunque potente e multiforme.


Con questa stessa paura ha a che fare lo scrittore. Paura di non essere apprezzato, letto, capito. Paura di ferire persone con quello che scrive.  Paura di rivelarsi troppo agli altri. Blocchi che anche Elizabeth Strout ha imparato a superare (è lei stessa a raccontarcelo), realizzando che era sempre stata “too careful for a long time”. Troppo attenta a non ferire se stessa e gli altri, troppo cauta nello scavare nelle miniere dei personaggi, troppo preoccupata dagli esiti di questi scavi. Quando ha provato a scrivere e basta, i continui rifiuti (Elizabeth Strout ha iniziato a essere presa in considerazione come autrice dopo numerosi tentativi e solo superati i quarant’anni) sono diventati dimostrazioni d’interesse prima e pubblicazioni poi. 


Siete avvisati aspiranti scrittori preoccupati in ascolto: don’t be too careful, parola di Elizabeth Strout.



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