La paura di cambiare, l'empatia e la sindrome di James Bond


In questi giorni di mascherine ostentate e propagande mozzate, un silenzio fatto di parole scalze e davanzali di bandiere si è aggrappato ai nostri occhi, come un pipistrello alle rocce sporgenti della sua caverna.
A testa giù ci osserva, sgranocchia paure a buon mercato regalate come caramelle a un pubblico affamato di corse, che siano verso qualcosa o per fuggire da qualcuno, poco importa.
Vogliamo correre, a perdifiato, scappare dai ‘noi stessi’ con cui ci siamo dovuti confrontare in questi giorni di quarantena dei piedi e dell’anima. Ma non è possibile scappare dalla consapevolezza che siamo poco più di un impasto di carne e sangue a cui un cuoco distratto ha aggiunto una manciata di neuroni come lievito e un pizzico di bontà per divertirsi un po’ a osservarne gli effetti.
Una volta usciti dal forno della vita vogliamo respirare, mangiare, crescere, procreare, occupare, possedere, prevalere. E tutto andrebbe come dovrebbe andare, se non fosse per quel pizzico di bontà che ci obbliga a rallentare, deviare, aiutare, persino ascoltare, sacrificando un pezzetto della nostra anima per capire e soddisfare bisogni altrui.


Poche settimane prima che scoppiasse la pandemia e che il pipistrello arrivasse nella nostra caverna ero a Barcellona per un seminario. Per l’orologio una manciata di mesi, un’eternità per la mente. Un mondo in cui potevamo raggiungere un amico senza autocertificazione, la mascherina era un vezzo asiatico, la distanza di sicurezza era solo quella che (non) rispettavamo sulle strade e l’Amuchina non era ancora un bene rifugio.
Seduto in una sala rettangolare dove il bianco regnava da padrone e il vento si infiltrava da ogni finestra, ricordandomi che il mare era a quattro vicoli di distanza, l’oratore parlava per metà in inglese e per metà in spagnolo del tema del giorno: il cambiamento non cercato.
Il cambiamento imposto da eventi esogeni improvvisi e apparentemente imprevedibili (quelli che i futuristi chiamano cigni neri), ha bisogno – ricordava l’oratore - di un periodo di transizione per essere accettato. Fin qui nulla di nuovo. Il mio cervello, come tutti i cervelli, ha cercato di incasellare lo stimolo ricevuto in classificazioni già presenti fra le sue sinapsi.  Si è detto: ‘adesso tirerà fuori il Bridges Transition Model e le tre fasi della transizione necessarie a fare proprio un cambiamento. Le conosco già. Forse avrei potuto fare una passeggiata per la città invece di rinchiudermi in questa stanza’.


Il cervello umano è affetto dalla sindrome di James Bond. Vuole dimostrare di avere tutto sotto controllo (soprattutto quando non lo è), ostentando disinteresse per l’esperienza che sta vivendo. Eppure, quella mattina ventosa gli avrebbe riservato una sorpresa racchiusa in una frase dell’oratore: “La vita è un incessante fila di atti eroici, possiamo compierli o passare la mano, ma essi sono lì ad attenderci”.
Le sinapsi iniziarono a rincorrersi per inquadrare quel filo di parole e archiviarlo nell’idea preconcetta che mi ero fatto. La voce dello speaker non me ne avrebbe dato il tempo, rivolgendosi al ragazzo seduto vicino a me per chiedergli quale fosse il suo ultimo atto eroico.
Scese un silenzio compatto, come la nebbia che c’era a Milano prima della quarantena. Tutti i partecipanti si girarono a fissare il prescelto, mentre lui guardava a terra con i suoi occhi da husky, rigirandosi fra le dita un braccialetto da cui pendeva una tartaruga d’argento. Il panico, ossia la paura della paura, spingeva la parte rettiliana del suo cervello a scegliere l’immobilità e il silenzio.
“Direi che il suo momento di eroismo è ora, giusto, professore?” Risate. 



Non avevo tenuto conto del mio pizzico di bontà e quella frase si era allontanata dalle mie labbra senza permesso. Si chiama empatia, la capacità di comprendere lo stato d’animo e la situazione emotiva di un’altra persona, in modo immediato, senza ricorso alla comunicazione verbale. E potremmo chiamare impropriamente ‘bontà’ la decisione di esporsi per aiutare la persona di cui abbiamo così abilmente compreso lo stato emotivo. Quest’ultimo passaggio non è scontato, ma in questi giorni è possibile osservarlo con maggiore frequenza fra gli esseri umani che ci circondano, come se il cuoco di turno avesse rotto il sacchetto della bontà mentre impastava gli italiani reclusi dalla quarantena per farne degli esperti di empatia.
Fortunatamente (altrimenti io rimarrei senza lavoro) non è così. Non siamo diventati tutti più buoni, né abbiamo scoperto scorte di zuccherosi sentimenti nascosti da Walt Disney nella sua nuova piattaforma di contenuti in streaming.   
Una spiegazione può arrivare dal filosofo Aldo Masullo. Nella sua ultima intervista prima di lasciarci, ci racconta che non siamo solo di fronte a una pandemia, ma anche a una panpatia, ossia a un dolore emotivo che da individuale e diventato improvvisamente collettivo. Così, non solo il virus è una presenza che riguarda tutti, ma anche le emozioni che provoca sono diventate trasversali e collettive. Per questo è più facile capirle, immedesimarsi e (perché no) essere pronti a fare piccoli e grandi gesti eroici per aiutare i compagni di isolamento.

Finirà tutto quando il 4 maggio ricominceremo a correre?

Forse, ma se ritorneremo ad essere dei workaholic, convinti che le organizzazioni in cui lavoriamo e viviamo siano ring darwiniani in cui solo il più forte, pardon aggressivo, ha diritto di parola, potremmo decidere di concentrare il nostro pizzico di bontà per guardare a chi è agli angoli di quel ring. Forse ha idee più interessanti, innovative e temerarie delle nostre.

Facciamo un gesto eroico, perdiamo l’incontro e proviamo a chiederglielo.

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