Cose dell’altro mondo


Il film di Francesco Patierno, il regista di Benvenuti al Sud per capirci, è appena uscito nelle sale con una soggetto che promette di far vedere “cose dell’altro mondo”, il nostro appunto.

La storia è semplice quanto geniale (e non originale, si ispira ad un film di Arau del 2004): scompaiono tutti gli stranieri. Prima dal Veneto, poi dall’Italia intera e con essi si smaterializzano colf, badanti, carpentieri, operai, raccoglitori di frutta e verdura e tutte le persone che spesso (in Veneto sembrerebbe sempre) fanno i lavori che a noi “vecchi” italiani non piace più fare. Le preghiere di un “imprenditur” razzista, qualunquista, volgare e eccezionalmente ignorante (nel senso che ignora tutto ciò che gli sta attorno perché preso solo da se stesso) vengono accontentate e una mattina un piccolo borgo in piena Padania si sveglia in un “day after” di silenzio e incredulità.

La domanda che pervade la città è: “E ora come faccio senza il tizio/a che mi stira, lava, pulisce e bada a quei rimbambiti dei miei genitori o a quei rumorosi dei miei figli?”

Poco importa che fine abbiano fatto queste persone (perché di esseri umani si tratta, anche se tutti sembrano dimenticarlo) e perché questo evento immaginifico sia accaduto. Quello che conta è sostituire la mandria operosa, sebbene crudelmente e necessariamente diversa.

Quando i greci parlavano di “barbaros” si riferivano a qualcuno che non utilizzava la loro lingua, i loro abiti, il loro cibo, il loro (cosa più importante) sistema sociale di regole prestabilite e universali (l’ellenismo). Ma anche perfette e insostituibili? Sembra essere questa l’idea sottostante al film di Patierno, che sceglie uno stile al limite del grottesco e immaginifico per trasportarci in una realtà dove l’unico desiderio che viene esaudito da un’entità superiore (scegliete voi quella che preferite) è quello di odio e intolleranza. Inaspettatamente si apre uno spiraglio fra l’Italia che si “arrangia”, cercando di “fregare” tutto e tutti (soprattutto se più deboli, extra comunitari o terroni non fa molta differenza) ed un possibile universo alternativo, in cui è necessario ricominciare a rimboccarsi le maniche, senza sperare sempre che qualcun altro risolva il problema.

Certo molto è lasciato all’interpretazione o alla creatività dello spettatore (se vi confronterete con chi ha visto il film, vedrete che ognuno avrà distillato il suo personale significato e in molti non sapranno ripetervi una frase o un momento specifico del film che li ha colpiti), ma ciò che è interessante del film non è certo il suo sviluppo e tantomeno il finale o le interpretazioni di Mastandrea o Abatantuono, a volte bloccate in un demagogismo di facciata, condito con un’incertezza di fondo su dove il film volesse davvero andare.

Ciò che conta è che qualcuno abbia sentito il bisogno di mostrarci ciò che vediamo ogni giorno, così normale da diventare invisibile: il silenzio. Il silenzio di centinaia, migliaia di persone che fanno il loro lavoro, magari anche bene, con serietà e professionalità, senza cercare una via più rapida per arrivare a rubare qualcosa ad un altro. E’ questo il silenzio che dovremmo ascoltare ed è a questo silenzio a cui dovremmo tendere.

In un articolo di qualche settimana fa de Il Sole 24 Ore Gianni Toniolo ci raccontava di uno dei tanti casi di silenzio eccellente di cui, (strano ma vero!) è costellato il nostro Paese e di cui ancora ci sorprendiamo o ci beiamo. E allora sembrerebbe il momento di far diventare “cose di questo mondo” quelle che nei nostri “vicini” europei sembrano ovvie, addirittura normali.

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Commenti

  1. Premesso che mi aspettavo di più dal film di Patierno, il tema, come giustamente ribadisci è oltremodo interessante oggi, alle soglia della "Padania unita"...
    Mi è piaciuta molto la definizione di barbaros che citi. La trovo quanto mai calzante alle nostre smanie di superiorità.
    Luca

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