Una parola, un verso: ventiquattresima - memoria, il punto di vista del "New Yorker"

memòria s. f. [dal lat. memoria, der. di memor -ŏris «memore»].

1. la capacità di ritenere traccia d’informazioni relative a eventi, immagini, sensazioni, idee di cui si sia avuto esperienza e di rievocarle quando lo stimolo originario sia cessato, riconoscendole come stati di coscienza trascorsi; 2. l’atto e il modo con cui la mente ritiene o rievoca singole e determinate immagini, nozioni, persone, avvenimenti; 3. tracce che persone o fatti lasciano nella mente degli uomini; 4. in memoria di, per onorare il ricordo di persone o anche di fatti.

 

Anche l’edizione della prestigiosa rivista giornalistica dal forte taglio letterario New Yorker del 12 settembre scorso è stata dedicata alla memoria dell’11/9 (anzi del 9/11 come lo ricordano gli americani, invertendo rispetto a noi latini giorno e mese in una data), ossia all’attentato che ha colpito le torri gemelle del World Trade Center a Manhattan dieci anni fa. Fra i tanti, forse troppi giornali che hanno voluto ricordare (spesso sfruttare) uno degli eventi più forti che ha colpito le pupille e le memorie di milioni di persone in tutto il mondo, portando alla morte di circa tremila persone in quella insensata mattina, il New Yorker è stato quello che forse ha saputo meglio condensare le paure e le speranze (poche) delle memorie che, a volte con parecchia e comprensibile difficoltà, si sono obbligate a ricordare e soprattutto a riflettere sul 9/11, ponendosi e ponendoci molte domande, alcune doverose, altre particolarmente scomode, ma decisamente necessarie.

Molti dei più rappresentativi scrittori di lingua inglese (americani e non) hanno espresso, in un paio di colonne, il loro punto di vista, partendo dalla memoria personale, dal “dov’ero in quel momento” che tutti noi avremo esercitato lo scorso 11 settembre. Il risultato si condensa in 12 pagine dalla carta molto sottile e leggera, caratteri piccoli e senza fronzoli in cui si fanno spazio dubbi pesanti, di chi ha visto in quel “dies horribilis” il distillato di tutte le nostre paure (dichiarate e non dichiarabili), di chi ha visto i barbari, i diversi (e per questo automaticamente incomprensibili e immediatamente estirpabili) che attaccavano la città che più di tutte ha fatto della diversità di pensiero, religione e cultura la sua essenza. Con quelle torri sono cadute molte delle speranze di convivenza che avevano illuso (?) gran parte degli scrittori che oggi si domandano, dalla pagine del New Yorker, quanto sarà ancora lungo quell’arco che costituisce l’universo morale a cui Martin Luther King si riferiva. Arco che, come ci ricorda Zadie Smith, sebbene sembri essere sempre troppo esteso per farci percepire il cambiamento mentale necessario a rendere possibile ogni convivenza, dovrà piegarsi di fronte alla giustizia. A quella, soprattutto oggi, ben saldi sulla nostra memoria, dovremmo tendere.

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Commenti

  1. Sarei proprio curiosa di leggere l'articolo di Zadie Smith a cui ti riferisci.
    Ma sul sito del newyorker non c'è tutto quello che si trova sul giornale...
    La citazione di Luther King me la spenderò proprio stasera in un'ennesima discussione con un'amica. Grazie e a presto
    Sara

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  2. Grazie a te Sara per la lettura del post.
    L'artico a cui mi riferisco è contenuto nel numero del 12 settembre del New Yorker, insieme a molti altri mémoire del 9/11
    Pierfrancesco

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