Rosso Cina. Una lotta fra Nobel e libertà

Sarà per la bandiera, sarà per il libretto di Mao, sarà per le lanterne di carta che abitano l’immaginario collettivo dopo il film di Zhāng Yìmóu, ma spesso, quando pensiamo a questo "paese-continente", pensiamo rosso.
Probabilmente dall’11 ottobre il rosso e la Cina saranno ancora più inscindibili nella nostra mente.
Giovedì scorso l’Accademia reale svedese ha assegnato il premio Nobel per la letteratura a Mo Yan, scrittore e sceneggiatore cinese, conosciuto in Italia soprattutto per il suo romanzo Sorgo rosso (Einaudi, 2005), che offre una vista sulla storia cinese dagli anni ’20 agli anni ’70 e che ha come scenario unificante il sorgo, cereale dalle spighe vermiglie, tappeto di sangue su cui Mo Yan fa consumare battaglie di ogni tipo. Da questo romanzo, sempre Zhāng Yìmóu, ha tratto l’omonimo film che ha vinto l’orso d’oro al festival di Berlino nel 1988.
Mo Yan
In una delle rare interviste che si trovano in lingua italiana sulla rete, Mo Yan ricorda il suo innamoramento per Italo Calvino e il suo  barone rampante, dimostrando una buona dose di furbizia promozional-territoriale (far sentire agli italiani che viene apprezzato un loro autore anche nella lontana e rossa Cina) e sancendo una delle regole d’oro, anzi rosse (perchè da non violare) per uno scrittore, ossia se si inizia a scrivere pensando che possa arrivare qualcuno che si innamori del proprio libro, lo pubblichi, lo renda famoso e poi ne ricavi addirittura un film, si scriverà qualcosa di orribile. Giusto, ma forse non basta. Qualche giorno fa, su La lettura, è uscito un articolo accorato di Alessandro Piperno sull’ultima opera di Salman Rushdie (Joseph Anton, Mondadori, 2012). Durante l'analisi del memoir di Rushdie, Piperno si sofferma su una riflessione dello scrittore indiano proprio sull'importanza di non diventare prigionieri del bisogno di essere apprezzati o amati da altri per le cose che si scrivono. Ricordando anche che le opere cui si lavora dovrebbero sempre avere un obiettivo che non vada a scontrarsi con la coscienza di chi le scrive, solo così l’autore, che per sua natura avrebbe bisogno di quell’apprezzamento diffuso che deve fuggire, può tentare di vivere in pace con se stesso.
Forse per rispondere in parte a questa necessità, Mo Yan ha lanciato un appello per il suo connazionale Liu Xiaobo, premio Nobel per la pace 2010, attualmente in carcere nel paese rosso, con una condanna a 11 anni per “sovversione”, parola che nella Cina contemporanea può semplicemente significare dire la verità. La Cina è un paese che sta avendo da anni una crescita economica esponenziale, se si guardano i numeri, ma è anche un sistema di governo capace, proprio grazie ai suoi tassi di crescita con cui ottiene “comprensione” dal resto del mondo, di impedire la libertà di parola e di pensiero, con ogni forma di repressione possibile, anche creando una muraglia di censura per controllare e cancellare migliaia di contenuti sulla Rete.
La “colpa” di Xiaobo, come quella di Weiwei o di Huang Qi, è quella di aver lottato per la tutela dei diritti umani o di aver semplicemente posto qualche domanda sul traffico di esseri umani in un paese che sotto il suo sorgo nasconde ancora troppi cadaveri.

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