Cinema d'incresciosa normalità - cambiare punto di vista al Festival del Cinema di Roma

Molte coppie si vantano di conoscere così bene il partner da potersi muovere all’unisono. Questo accade anche a Hélène e Joachim (i due protagonisti di Main dans la main film di di Valérie Donzelli – Francia 2012 - presentato in anteprima al Festival internazionale del Film di Roma) e fino a qui nulla di nuovo, se non fosse che i due in questione non si amano, non si conoscono, non si sono mai visti prima del loro casuale incontro all’Opéra di Parigi, momento dal quale sono costretti a muoversi all’unisono, come in una coreografia surreale e grottesca a metà fra Il favoloso mondo di Amélie di Jean-Pierre Jeunet e Burn After Reading dei fratelli Coen. Ogni movimento che fa Hélène, Joachim lo deve replicare, conferendo ai primi venti minuti di pellicola l’aspetto di un semplice divertissement, seppure gradevole e di “alleniana” impostazione. La sfida della giovane regista è stata però quella di trasformare questa coppia inopportuna in un insieme che funziona, perché riesce a far vedere all’altro ciò che non vuole vedere, accompagnando il pubblico in un inatteso e temuto momento di scavo fra macerie di decisioni passate e doveri inalienabili nei confronti di persone che non esistono più. E sebbene ci saremmo aspettati un approfondimento più coraggioso dei personaggi nella seconda parte del film, che prova invece ad indagare anche chi ruota intorno ai protagonisti, condensando così troppe verità non dette in 90 minuti di pellicola, Main dans la main ha il merito di dimostrarci che lo scavo in noi stessi e il cambiamento che da esso può derivare non hanno mai una scadenza e che a volte abbiamo solo bisogno di qualcuno che compia il viaggio con noi. Certo, se si è entrambi disposti a perdersi nel viaggio stesso.

A un ritmo sincopato e a un’arguzia fuori misura, si è affidato invece P.J. Hogan (regista australiano de Le nozze di Muriel del 1994 e de Il matrimonio del mio migliore amico del 1997) presentando, fuori concorso al Festival Internazionale di Roma, il suo Mental che assorbe e centrifuga lo spettatore in un dialogato che non si lascia scappare nessuna delle nostre insane, pazze, incresciose presunte normalità, facendone coriandoli da spargere in cielo mentre cantiamo Edelweiss, proprio come avrebbe fatto Julie Andrews nel film Tutti insieme appassionatamente.
Partendo da alcuni riferimenti autobiografici, il regista sembra operare in uno stato di grazia sardonica e incontrollabile, che spinge lo spettatore a solcare acque sconosciute dai ritmi inarrestabili, come se fosse bastata la canzone della “matta” Shirley, con cui si apre il film, a generare una cesura insanabile fra il nostro mondo e quello di Hogan, con la sua “matta” Australia e la scintillante e rabbiosa “pazzia” di Toni Colette, protagonista e deus ex machina di tutta la pellicola. Portatrice di cataclismici cambiamenti nella vita di una famiglia non abbastanza “matta” per accettare di conformarsi alla normalità, Shaz (il personaggio di Toni Colette) osa mostrare alle persone i loro errori, le loro meschinerie, le loro ottusità e se le parole non bastano…beh, saranno i fatti a parlare. Anche Shaz ovviamente ha le sue nascoste paure, il suo senso d’inadeguatezza a minacciarla, il giudizio altrui a consumarla, ma questo ce la fa apprezzare ancora di più, ricucendo nel corso del film lo strappo fra i due mondi, che non sono solo nella stessa galassia, ma spesso appena sotto il nostro naso. 



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