Padroni servi e Servi padroni.

Cosa fa di una persona un “servo” e cosa invece lo consacra “padrone”?
Il denaro, il potere, la capacità di guidare o la necessità di essere guidati?
E soprattutto, è possibile coprire entrambi i ruoli allo stesso tempo? Avere un padrone che ritrova nella vessazione del suo servo l’unico strumento per dichiararsi ancora vivo, rendendo il servo necessario?

Secondo Ronald Harwood (scrittore e sceneggiatore sudafricano, londinese d’adozione, nonché ex servo di scena in una compagnia shakespeariana nei primi anni ’50) non solo è possibile, ma probabilmente è il requisito principale per creare un dialogo che non ammette resistenze nel suo pubblico, che si fa temere, odiare, andando a perlustrare meticolosamente ogni sbavatura dell’animo umano. Chi si è trovato negli scorsi mesi ad assistere all’ultima messa in scena di Servo di scena (The Dresser – trasposto anche sugli schermi in un film di Peter Yates) di Harwood in tournée con la compagnia del teatro stabile di Brescia, da ultimo al Teatro Argentina di Roma, si è trovato a fronteggiare un testo ancora molto attuale, oserei dire necessario in una società come la nostra, in cui il dichiarato e l’agito non solo non vanno all’unisono, ma viaggiano in due universi paralleli che si guardano con il dovuto sospetto. Sebbene abbia quasi trent’anni e sia ambientato negli anni ’40, il testo riesce a risucchiare l’attenzione del pubblico fin dalle prime battute. Mostrando il dietro le quinte di una barcollante compagnia shakespeariana che insiste a tenere le sue rappresentazioni sotto i bombardamenti nazisti, la pièce fa leva sullo spiccato voyeurismo proprio dell’essere umano, che non riesce a contenere la curiosità di scoprire cosa si nasconde dietro le persone.

Il “padrone” di questa storia è Sir attore shakespeariano un tempo famoso, un tempo (forse) talentuoso, un tempo desiderato e fatto sentire necessario, che si rende conto di essere alla fine della sua carriera, capocomico di una scalcagnata compagnia, in cui lui spicca con facilità, forse troppa, e il cui unico problema è capire se ci sono abbastanza attori per coprire tutti i ruoli o se Sir sarà in grado di sollevare la sua compagna (non più eterea come un tempo), nonché co-protagonista, nell’ultimo atto della messa in scena di King Lear. La consapevolezza del crepuscolo ormai imminente, porta Sir a rischiare il forfait, ma solo per sentire che tutti gli altri lo vogliono ancora, che ne hanno bisogno per non perdere quel poco di credibilità che resta alla compagnia. In questo copione nel copione, s’innesta la figura più interessante e sfaccettata creata dalla penna di Harwood: Norman, il “servo” di scena in questione, che accudisce e rincuora il suo Sir, difendendolo dalle critiche degli altri attori, dalle pretese della compagna, ma soprattutto da Sir stesso, facendosi così attore principale nel testo che il suo padrone ripercorre ogni giorno, insieme ai suoi rituali di trucco, vestizione e negazione, portando Norman a diventare la memoria del suo padrone e quindi padrone del padrone stesso, che senza il suo servo non sa stare.

Tommaso Cardarelli, Norman nella messa in scena di Franco Branciaroli, risulta perfetto interprete della sarcastica e scoppiettante relazione con il suo Sir, infondendo al personaggio nuova linfa e facendo intravedere al pubblico tutte le variazioni di colore che possono nascondersi dietro un rapporto umano.

E voi? In quale categoria preferireste stare?

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