Una pace senza morte secondo Martone


Un uomo non riesce a frenare l’irruenza del gesto della sua mano destra che sbatte e tormenta la sinistra in una guerra che la sua mente, sola, può comprendere o almeno è questo che ci piace pensare. Siamo a teatro, le luci intorno a noi sono spente, seduti nelle vellutate poltroncine del Teatro Argentina di Roma siamo nervosi, non sappiamo cosa aspettarci da questa sera. Mario Martone sta mettendo in scena, primo e unico, La serata a Colono, omonima pièce di Elsa Morante, ispirata all’Edipo a Colono di Sofocle, e noi siamo lì a domandarci se qualcuno ne sentiva il bisogno, se noi ne sentivamo il bisogno. Era la sera giusta per andare ad ascoltare i deliri di un piccolo proprietario terriero del sud Italia, intrappolato in un ospedale psichiatrico in pieni anni ’60? Era il tempo giusto per fissare le bende strette intorno ai suoi occhi?  E le cinghie di contenimento che lo bloccano al letto e non gli permettono di spostare un solo muscolo? E il suo sangue che, resosi conto di irrorare un corpo che non serve più a nessuno, sembra deciso a dedicarsi alla sola mente? Parole in libertà, perché certo la Morante scrisse questo testo sotto l’effetto dell’Lsd, ma libertà nelle parole, perché nulla può essere perso se non è il sommo bene cui questo Edipo sembra tendere con ogni logorroico sproloquio: un desiderio di conoscenza che travalica ogni suo controllo, ogni vincolo umano. E allora iniziamo a inseguirlo questo incontinente della parola, iniziamo a cercare di fissare le sue metafore, una sull’altra, perché se ne scorga il disegno, la direzione. E non è facile e non è piacevole, perché se «la grazia è l’assenza di ogni notizia[1]» e in quest’ultima affermazione scorgiamo un pallido e letale viatico per la nostra salvezza (pallido e letale come il disco luminoso che appare in scena e davanti al quale Edipo si dibatte), scopriamo subito che la distanza fra assenza di notizia e memoria è incolmabile («la memoria, il mio languente parassita, sempre pronto a risvegliarsi[2]») e siamo riportati a terra, in quel letto con Edipo e sogniamo per un attimo di essere Antigone, per infarcire di “che” ogni inizio di discorso e credere di poterci aggrappare al pronome relativo che presuppone sempre un “prima” ed è convinto ancor di più di giungere in un “dopo”. Carlo Cecchi (Edipo) e Antonia Truppo (Antigone) intanto ci hanno lasciato indietro, rincorrerli è sempre più difficile e necessario, fino alla scala delle 7 porte, fino a quella pace che desiderava e temeva Eduardo De Filippo, quando diceva: «Io vulesse truvà pace; ma na pace senza morte».


[1] Testo rapito dall’ascolto in sala della piéce della Morante. Parla Edipo.
[2] vedi nota 1.
 

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