Cina: dai ventilatori alle Adidas, passando per Amélie Nothomb.
Vi è mai capitato di conoscere qualcuno che ha vissuto in Cina?
Magari mentre vi trovavate a cena con degli amici vi ha chiesto di passargli il sale e poi, mentre vi restituiva la saliera, guardando con disappunto un qualsiasi oggetto sul tavolo davanti a voi, ha detto qualcosa come: “Quando vivevo a Pechino, questo non accadeva”.
Voi allora lo avrete guardato con un’espressione smarrita, domandandovi per quanto tempo vi eravati distratti a fissare la dimensione sconvenientemente smisurata della vostra pizza, per non esservi resi conto di aver iniziato una conversazione sulla Cina con uno sconosciuto.
Non vi preoccupate, stavolta non è colpa vostra, avrete soltanto incontrato un seguace di quella che Amélie Nothomb definisce «una proprietà specifica della Cina», ossia il suo essere «un classico, l’assoluto, Chanel n.5»[1], detentrice di un fascino senza tempo, capace di rendere cechi coloro che vi entrano e che racconteranno sole le cose belle che hanno visto. «La Cina è come un’abile cortigiana capace di far dimenticare le innumerevoli imperfezioni del corpo senza neppure nasconderle e di far innamorare tutti i suoi amanti.» [1]
Questo almeno è il Paese che la scrittrice belga ci racconta nel suo libro Sabotaggio d’amore in cui, attraverso gli occhi di una bambina di 7 anni, descrive la Cina degli anni settanta: quella del comunismo “cattivo”, delle divise grigie, dei campi e dei ghetti, della sorveglianza maniacale e del cemento armato (quest’ultima caratteristica ancora più presente nella Cina attuale, sebbene dotata di scintillanti rivestimenti), ma soprattutto la Cina dei ventilatori.
Chissà quanti dei turisti che oggi vanno a visitare San Li Tun e il suo Village di 19 palazzi splendenti, il cui simbolo sono i grandi logo di UNIQLO (azienda giapponese di abbigliamento di design) e di Adidas, sanno che un tempo lì c’erano solo dei vecchi cubi di scuro cemento, con alte mura e soldati pronti a controllare che nessuno dei diplomatici ospiti della Cina potesse uscire e vedere? La sostanza non è cambiata molto, solo la forma delle trappole è mutata, le guardie sono diventate più astute, lasciando un margine di movimento appena un po’ più ampio ai loro prigionieri, mentre la guerra continua, tra un acquisto e l’altro...
La prossima volta, quando incontrerete il signor “Quando vivevo a Pechino, questo non accadeva” provate a scoprire da che parte sta.
[1] = Da Sabotaggio d’amore di Amélie Nothomb – Voland edizioni – 1998.
Magari mentre vi trovavate a cena con degli amici vi ha chiesto di passargli il sale e poi, mentre vi restituiva la saliera, guardando con disappunto un qualsiasi oggetto sul tavolo davanti a voi, ha detto qualcosa come: “Quando vivevo a Pechino, questo non accadeva”.
Voi allora lo avrete guardato con un’espressione smarrita, domandandovi per quanto tempo vi eravati distratti a fissare la dimensione sconvenientemente smisurata della vostra pizza, per non esservi resi conto di aver iniziato una conversazione sulla Cina con uno sconosciuto.
Non vi preoccupate, stavolta non è colpa vostra, avrete soltanto incontrato un seguace di quella che Amélie Nothomb definisce «una proprietà specifica della Cina», ossia il suo essere «un classico, l’assoluto, Chanel n.5»[1], detentrice di un fascino senza tempo, capace di rendere cechi coloro che vi entrano e che racconteranno sole le cose belle che hanno visto. «La Cina è come un’abile cortigiana capace di far dimenticare le innumerevoli imperfezioni del corpo senza neppure nasconderle e di far innamorare tutti i suoi amanti.» [1]
Questo almeno è il Paese che la scrittrice belga ci racconta nel suo libro Sabotaggio d’amore in cui, attraverso gli occhi di una bambina di 7 anni, descrive la Cina degli anni settanta: quella del comunismo “cattivo”, delle divise grigie, dei campi e dei ghetti, della sorveglianza maniacale e del cemento armato (quest’ultima caratteristica ancora più presente nella Cina attuale, sebbene dotata di scintillanti rivestimenti), ma soprattutto la Cina dei ventilatori.
Sì, avete capito bene, proprio dei ventilatori, perché il caldo umido in Cina non è mai mancato, ma a differenza del vicino Giappone da cui proviene la piccola eroina belga del romanzo della Nothomb (che guarda caso è di famiglia belga, ma è nata a Kobe) la Cina sembra essere sprovvista di molte e necessarie comodità di base, come l’aria condizionata, le bibite gassate o un bel giardino in cui passeggiare. È zeppa invece d’immondizia, odora di «vomito di bambino» ed è costellata di orridi cubi di cemento senza ascensore. In uno di questi verrà confinata la famiglia della protagonista insieme ad altri diplomatici stranieri: siamo nel ghetto di San Li Tun (che in cinese vuol dire più o meno “luogo a un chilometro e mezzo da lì”, dove il “lì” si riferiva al ponte Dongzhimen), molto lontani dai colori e dai fasti dell’obiettivo di Bernardo Bertolucci del suo L’ultimo imperatore, molto lontani dalla Città Proibita, dal Tempio del Cielo, dalla Collina Profumata. È qui che Amélie Nothomb ambienta una nuova guerra mondiale, ben più ampia e complessa di quelle che la Storia ci racconta, una guerra che è durata tre anni e ha coinvolto decine di nazioni, producendo atroci effetti sugli eserciti coinvolti, la cui età media si aggirava intorno ai dieci anni.
Bambini. La guerra di Amélie Nothomb è fatta di bambini, non per questo è meno dura e spietata. Ma ciò che colpisce il lettore di Sabotaggio d’amore è il paragone fra la Cina anni settanta e quella attuale, fra il San Li Tun del 1974 e quello del 2013. Se piccoli frammenti del fascino da Chanel n.5 di cui ci parla Amélie Nothomb rimangono ancora oggi, il resto sembra essere stato assorbito dal cemento. Da una smania tentacolare di inglobare tutto il peggio possibile dall’Occidente e dell’Oriente, mischiandolo con l’immondizia, la disperazione e l’ingordigia.
La prossima volta, quando incontrerete il signor “Quando vivevo a Pechino, questo non accadeva” provate a scoprire da che parte sta.
[1] = Da Sabotaggio d’amore di Amélie Nothomb – Voland edizioni – 1998.
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