I pilastri della terra e l’arte del “fregare” – Ibsen e la politica del compromesso.
Al primo piano del teatro
Argentina di Roma, in concomitanza con le grandi finestre di
legno verdastro che affacciano su una delle aree archeologiche più antiche e
trascurate di Roma (l’area
sacra di Largo Argentina di età Repubblicana), ci
troviamo al cospetto di uno spazio studio per incontri con drammaturghi e
attori. Filari di sedie da regista nere che fronteggiano un piccolo palco,
anch’esso nero, e alle pareti resti di maschere del teatro greco che fissano
imperturbabili lo spazio, in attesa che si riempia di ascoltatori, di pubblico
insomma, cui far udire forse la loro antica voce e alcune domande ben riposte
nelle loro bocche candide.
In un angolo di questa sala, una strana statuetta raffigura un omino seduto
su un pilone, con le gambe incrociate, cappello a cilindro e strane basette
giganti. È la statua di Henrik Ibsen,
posta in quel salone nel 2006 a ricordo del centenario della sua morte e poi
spostata in un angolo, in disparte, a osservare. E osservare, senza essere
notato, a Ibsen dev’essere sempre piaciuto, se proviamo a leggere le sue opere
teatrali più conosciute a cominciare da Casa
di Bambola e I pilastri della
società, testi che pur essendo stati scritti alla fine dell’Ottocento,
contengono dialoghi che sembrano essere stati “rubati” agli uomini e alle donne
che ci circondano, a cominciare da chi governa il nostro paese, che
evidentemente non è molto diverso dalla borghesia norvegese ottocentesca,
sfatando così il mito della corruzione e del compromesso come doti tipicamente italiche.
Ma attenzione a gioire del mal comune: «se
la politica è corrotta, è perché la società è corrotta.»
È una battuta del protagonista de I
pilastri della società (proprio in questi giorni in scena con
Gabriele Lavia all’Argentina) o una frase
retorico-populista di un esponente del nostro parlamento? Entrambi sono pronti
a tutto per il denaro e il potere e sanno che sull’immagine e sulla menzogna si
può costruire un impero, i fatti glielo hanno sempre dimostrato. Vivono il
compromesso come la via per il benessere (il loro) e sono pronti a dire tutto e
il suo contrario, sostenendo che quello è sempre stato il loro unico punto di
vista. Allora il politico italico non è
più corrotto del console norvegese di più di cento anni fa? Forse, ma Ibsen
ci rivela che nel suo intimo, il politico norvegese sa che ciò che ha fatto è
sbagliato, è immorale, è barbarie, è «sempre
più basso», per questo (e Lavia nella sua interpretazione incarna perfettamente
questo saliscendi emozionale) trova continue ragioni di stato e di denaro per
giustificare le sue azioni, per poi ricadere in nuovi dubbi e in sempre più
fantasiose giustificazioni.
E il nostro politico? Il nostro populista d’assalto? Pensate che abbia
bisogno di giustificare con se stesso le sue azioni? O è ormai già oltre? In
una terra desolata dove il “fregare” non solo è necessario, ma somma
espressione del bene (il proprio).
Un bel pensierino su cui riflettere per il nostro Natale.
*_*
RispondiElimina