Il capitano della propria anima. La scelta secondo Mandela.
«Gli uomini sono miseri per
necessità, e risoluti di credersi miseri per accidente.»
Questa conclusione di uno dei Pensieri
di Giacomo
Leopardi mi è venuta alla mente mentre ascoltavo il presidente degli Stati
Uniti d’America mentre tentava, in 19 minuti, di dare una forma alla vita di un
uomo davanti a una folla bagnata, stretta dentro (e attorno) la ciambella
multicolore che racchiude lo stadio di Soweto in Sud Africa. È il 10 dicembre
2013, Nelson Mandela è morto da cinque giorni e il suo popolo canta e si colora
di gesti e di bandiere per non sentire ancora, è troppo presto davvero, la
solitudine della sua assenza.
In un articolo apparso sul The New
Yorker, il numero andato in stampa prima della morte di Mandela, James
Wood ci offre il suo punto di vista sulla morte nella vita e nei romanzi,
ricordandoci che la morte di uomo, a differenza di quella di un personaggio,
non ha una sua forma definita fin dall’inizio della storia. E se nel libro che
portiamo in mano la fine è stata già scritta e non può essere cambiata, nella vita
che portiamo addosso il finale è sempre aperto, fino all’ultimo respiro, fino
all’ultima scelta. E solo quando una persona svanisce possiamo fare qualche
passo indietro, come se fossimo di fronte a un quadro di Jackson Pollock, in continuo
divenire nei suoi strati di materia apparentemente antitetica e disarmonica a
cui non siamo ancora riusciti a dare un senso definitivo. Allora e solo allora
lo guarderemo prendere forma, capendo che da quel momento in poi non potrà più
cambiare e, proprio in quel momento, inizierà a mancarci, in tutte le sue età,
le sue fasi, le sue scelte.
Le migliaia di persone che hanno
viaggiato per giorni pur di essere presenti alla giornata di commemorazione di
Nelson Mandela quel passo indietro non l’hanno ancora fatto, nessuno di noi l’ha
fatto, né lo poteva fare, perché la tela che ci ha offerto Madiba (così era
chiamato e conosciuto dal suo popolo Mandela) è così vasta e dai colori così
intensi che l’occhio non riesce a comandare al cervello di fare quel passo
indietro, è immerso nel colore e non se la sente di tornare in una comoda area
grigia. Mandela da quella tela continua a osservarci, noi miseri per necessità
e non per accidente, noi adattivi e adattabili a qualsiasi arrogante violenza
pur di sopravvivere, pur di continuare a respirare, di nascosto, sotto la
melma, dentro la melma che facciamo nostra pur di continuare a essere. Ebbene
questa scelta Mandela ha deciso di non farla e in questo sta la sua forza e la
sua domanda. Madiba ci ricorda che «sembra sempre impossibile fino a che non
viene fatto.» e che sta anche a noi farlo, ce lo chiede, ce lo impone e non è
facile ignorare la sua richiesta. In un articolo dedicato a Mandela (Mandela,
my countryman) Nadine Gordimer ricorda il suo incontro con Madiba e le
fasi più dure e necessarie del suo percorso di libertà che è diventato poi il
percorso di libertà del suo popolo. Fra le scelte che ha deciso di non fare, la
scrittrice ricorda quella che lo aspettò nel 1985, quando l’allora presidente del
Sud Africa (P.W. Botha) offrì a Mandela la libertà dopo 23 anni di prigionia in
cambio della rinuncia alla lotta armata contro l’apartheid. Mandela rifiutò rispondendo «Let him renounce
violence. Let him say that he will dismantle apartheid. […] I cannot and
will not give any undertaking at a time when I and you, the people, are not
free. [1] »
e di quella rinuncia e della paura di non vedere mai la libertà fece la sua
motivazione, regalando poi cinque anni dopo il primo presidente nero al Sud
Africa e la fine di un regime di odio, segregazione e violenza che aveva seviziato
lo spirito di milioni di persone per decenni. Ora Mandela ha lasciato
definitivamente al suo popolo la possibilità e l’onere del prossimo rifiuto, lo
ha lasciato a tutti noi, lo ha lasciato anche a Mr. Obama chiedendogli di
essere il «capitano della propria anima», non sarà un’impresa facile, ma non
staremo solo a guardare.
Commenti
Posta un commento