L’arte di essere fragili di Alessandro D’Avenia e il rapimento di Giacomo Leopardi
Giacomo Leopardi per me è sempre stato uno
strumento musicale. Un violino per l’esattezza. Di quelli che sanno condensare
una sensazione in pochi movimenti perfetti, capaci di fermarsi per sottolineare
nel più inatteso dei modi un silenzio e poi ripartire. Precisi e sinceri, a
trivellare l’animo di chi è in ascolto alla ricerca di una fragilità da far
germogliare in domanda. Anch’io, come Alessandro D’Avenia racconta al lettore
nel suo L’arte di essere fragili (Mondadori), ho scoperto
Leopardi grazie a un insegnante e alla sua mente illuminata, sebbene non l’abbia
trovato in classe. Nella mia stanza di adolescente, seduto alla scrivania,
avevo di fronte l’antologia di letteratura italiana e torturavo le orecchie che
avevo indebitamente procurato all’innocente tomo. Sognavo un tornado salvifico
che mi proiettasse in un universo parallelo in cui non mi sentissi il più sbagliato
degli esseri viventi. Poi qualcuno mi poggiò la mano sulla spalla e mi chiese
di leggere. Non volevo, ma ci sono persone cui non sappiamo dire di no e a
volte questo è un bene. Una poesia: L’infinito. Così scoprii che «interminati
spazi» e «sovrumani silenzi» non esistevano solo in me, ma anche in Leopardi e
che la rabbia che sentivo crescermi dentro per la paura che non mi permetteva
di muover passo o pensiero, non erano mia proprietà esclusiva. Lessi malissimo,
come può leggere un ragazzo che vive come violazione ogni sua esposizione
emotiva, e poi rilessi ogni parola, dentro di me e lì la melodia di Leopardi
cominciò a far germogliare parole e domande che non mi hanno più abbandonato.
Molte devono aver fatto il nido anche in
Alessandro D’Avenia che, nel suo L’arte di essere fragili, continua un dialogo
con Giacomo Leopardi che da anni ha iniziato, facendolo conoscere ai ragazzi
che si sono rincorsi nella aule milanesi dove D’Avenia insegna lettere. L’autore
di Bianca come il latte, rossa come il sangue dialoga con il poeta, con
questo testo in forma di epistolario lo interroga e si interroga, offrendoci un
rimedio ideale per «riparare il fuoco della nostra esistenza» e presentandoci l’immagine
di un Leopardi ‘predatore di felicità’: «A guidarlo era una passione assoluta.
La custodiva dentro di sé e la alimentò con la sua fragilissima esistenza nei
quasi trentanove anni in cui soggiornò sulla Terra; per questo ebbe un destino
scelto e non subito, pur avendo tutti gli alibi per subirlo o per ritirarsi da
qualsiasi passione. Fu invece un cacciatore di bellezza, intesa come pienezza
che si mostra nelle cose di tutti i giorni a chi sa coglierne gli indizi».
Polverizziamo così l’idea stantia di un Leopardi
pessimista e misantropo, per scoprire l’uomo che cercava affannosamente il rapimento,
manifestazione della parte più autentica di noi, quello «che sappiamo essere a
prescindere da tutto», in ogni attimo della vita. Rapimento che trovava nei
dolci di cui era goloso, proibiti dal suo medico, che Leopardi nascondeva sotto
il cuscino per gustarseli nelle sue notturne riflessioni, ma soprattutto nella
necessità di sentirsi sempre titolato «a esprimere nel silenzio del cuore ciò che
più conta», ciò per cui si desidera vivere. E qui sta il merito più grande di
questo epistolario che ignora spazio e tempo per far dialogare l’autore de Lo Zibaldone con uno scrittore del XXI
secolo: ricordare ai lettori che il rapimento «non è un lusso che possiamo
concederci una notte all’anno, ma la stella polare di una vita». Ma per
raggiungere lo stato ‘leopardiano’ del rapimento permanente bisogna scavare, a
fondo, per non «restare prigionieri dei due principi che dettano il copione
dell’infanzia e dell’adolescenza: il piacere e l’obbligo, motori che ci
spingono ad agire per un dettato esterno e non per un fiorire interno».
E allora armiamoci di sete, una inestinguibile
sete di consapevolezza, conoscenza, capacità di osservare. E se vogliamo
puntare a qualcosa di davvero difficile, qualcosa che sembra essere contrario
alle regole sociali in cui ci muoviamo (questo a Leopardi sarebbe piaciuto),
armiamoci della capacità di ritirarci per dare spazio a quello che ci circonda,
scoprendo in esso un valore che mai avremmo immaginato ove finalmente il cor
si spauri.
Come ci ha ricordato un altro poeta (Tomas Tranströmer):
Stupendo sentire come la mia poesia cresce mentre
io mi ritiro.
Cresce, prende il mio posto.
Si fa largo a spinte.
Mi toglie di mezzo. [1]
Link a Sul Romanzo
[1]
estratto dalla poesia Uccelli Mattutini
di Tomas Tranströmer – Echi e tracce 1966 - raccolta Poesia dal
Silenzio – Crocetti editore 2001/2008
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