I barbari di Steinbeck secondo Alessandro Baricco
La prima volta che ho incontrato Alessandro Baricco
ero insieme a duemila persone asserragliate nella Sala Santa Cecilia del Parco
della Musica di Roma per uno degli eventi più attesi di Libri Come. Era ancora
forte l’eco del suo I barbari saggio
sulla mutazione (edito da Fandango prima e da Feltrinelli poi) che
raccoglieva una serie di riflessioni del patron della Scuola Holden sulla
mutazione che sta subendo la cultura occidentale e sulle presunte orde
barbariche che su di essa si erano abbattute. Orde che hanno creato paura,
barriere, muraglie che lo stesso Baricco ci dice «non difendevano dai barbari:
li inventavano».
Il pensiero va al piccolo saggio Lo spettro dei barbari - Adesso e allora, in cui Zygmunt Bauman
fa impennare i suoi (e i nostril) pensieri sulle impervie colline dell’etimologia.
Il vocabolo da cui parte il sociologo polacco è proprio ‘barbaro’. Per gli
antichi greci ‘barbaros’ erano tutti coloro che non erano greci, persone che
parlavano un diverso idioma, basandosi su un sistema di regole (sociali,
economiche ed etiche) non conforme a quello greco. Poi sono arrivati i romani che, nel formare il loro
impero, hanno inglobato questa diversità, digerendola nel proprio sistema
sociale in modo che ogni cittadino dell’impero fosse prima di tutto un romano e
poi qualcos’altro. Chi non era disponibile a diventare parte del 'blob imperiale'
diventava un ‘barbaro’. Diverso, ignorante, sporco, cattivo. Pronto a tutto pur
di rubare al romano le sue ricchezze.
Barbari sono anche i protagonisti del romanzo di John
Steinbeck Furore che Baricco ha messo in scena a Torino in un sabato sera di maggio, utilizzando al meglio le
sue doti di affabulatore. In uno spazio industriale in cui il tempo era sospeso
dalle vibrazioni musicali di Francesco Bianconi, Baricco ha pirandellianamente
materializzato, per un pubblico affetto da sindrome di Stendhal acustica, la
barbarica famiglia Joad, pronta a subire qualsiasi violenza pur di arrivare
nella ‘loro Roma’: la California.
La voce di Baricco parte e con essa la nostra mente,
abile tessitrice di paure. Immaginate occhi. Occhi immensi, scavati. Occhi
affamati, così affamati da far risuonare il tamburo che ognuno di
noi nasconde nella pancia: PERICOLO. Scappare fino a che le gambe lo consentono
o rimanere pietrificati, sperando che il predatore di turno ci creda morti. La
pelle tesa del nostro stomaco continua a vibrare, una moltitudine sta
arrivando. Non riusciamo ancora a vederla, ma sentiamo i loro occhi, nella notte,
ai bordi delle nostre città. Sappiamo che hanno subito ogni genere di sopruso e
per questo li temiamo. Chi non ha nulla da perdere è il più forte.
I nostri occhi si fanno piccoli, noccioli di olive
essiccati al sole. Volevano molte cose: notorietà, prosperità, facilità, anche
una strana cosa che si chiama stabilità bancaria. Ora sono spenti, incapaci di
mettere a fuoco le moltitudini. «Arrivano dalle montagne, affamati e
infaticabili come le formiche […] i bambini hanno fame, gli adulti non hanno un
tetto. […] Erano affamati ed erano agguerriti, avevano sperato di trovare un
focolaio e trovarono solo odio».
La voglia ora di leggere il romanzo di Steinbeck ci
divora e la paura di ritrovare in quegli occhi secchi i nostri non basta ad
asciugare il nostro furore.
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