Le nostre anime di notte secondo Kent Haruf
Scrivere una
storia è un’operazione suicida. L’anima dell’autore è su una piccola
imbarcazione, di notte, al centro del più burrascoso degli oceani (la trama), compresso fra compagni di
viaggio che sembrano essere stati messi al mondo solo per creargli problemi (i personaggi). All’orizzonte una serie
di iceberg giganti che sta all'autore decidere di circumnavigare o evitare, dando
vita al ritmo narrativo. Il Titanic insegna quanto sia difficile da prevedere la
presenza di un iceberg, le sue dimensioni, la sua pericolosità o mobilità.
Eppure è questo che fa uno scrittore. Quando arriva sulla sponda del lettore apparirà
riposato e sorridente, come se avesse appena fatto la cosa più naturale del
mondo. La storia che ha narrato non poteva andare che a quel modo, il verosimile è diventato vero più perfetto perché privo di tutte
le noiose pause del reale e arricchito da colpi di coraggio e di viltà che il
lettore vorrebbe far subito suoi.
Una
dimostrazione pratica di questo genere di imprese ce la offre Kent Haruf (scrittore
americano che ha raggiunto la notorietà a 56 con il suo Canto della pianura con cui è stato anche finalista al National Book Award) nel
suo Le nostre anime di notte (EnneEnne Editore, Milano 2017). Poco più di 160 pagine di perfette virate narrative
nel più piccolo oceano che esista, una minuscola e polverosa cittadina del
Colorado, accartocciata su se stessa, dove nulla dovrebbe accadere.
Eppure una
storia c’è e non appena Haruf, con la sua padronanza dell’essenziale, ce la
svela, ne veniamo attratti come falene da un manto di stelle che sembra essersi
avvicinato così tanto alla Terra da poter essere toccato. Le stelle in
questione, sono quelle di Addie Moore e Louis Waters, due anziani vedovi che
decidono di fare quanto di più sconveniente ci sia, affermare che hanno ancora
voglia di provare emozioni, condividerle, raccontarsele. Ed è forse qui uno dei
segreti di questo romanzo: ognuno dei due personaggi ha decine di narrazioni al
suo interno e non tutte vengono percorse dall’autore. Egli però le mostra, con
la stessa delicatezza che avremmo noi se ci cadesse fra le mani il primo fiocco
della prima neve: immobili a contemplare la meraviglia.
Leggere Le nostre anime di notte regala al
lettore la stessa sospensione emotiva che abbiamo quando sentiamo di aver
conosciuto una persona che potrebbe diventare importante nella nostra vita. Per
un attimo vorremmo abbandonarla per sempre per paura di scoprire che ci
deluderà. È quell’attimo che ci mostra Haruf e noi ne siamo ammaliati. Questo
libro crea una poesia del movimento narrativo, trasformando l’essenzialità di
una parola ‘comune’ in un distillato di sensazioni amplificate, come se il
lettore potesse avvicinare il naso al bordo della cittadina dove Haruf ha nascosto
i suoi personaggi per annusarne l’essenza.
Anche per questo
Le nostre anime diventa una droga
soave da cui non è possibile sganciarsi, possiamo solo immaginare la fatica e
la precisione di ogni colpo di remo che Haruf ha spinto nelle acque narrative
intorno agli iceberg di Addie e Louis, ciò che sappiamo è che ogni frase
asciutta, ogni aggettivo mancante e ogni narrazione interrotta (per lasciare
spazio alla nostra immaginazione) non è casuale.
Se avessi la
fortuna un giorno di poter scegliere un’anima di cui essere il co-pilota in
questa insensata e irrinunciabile traversata notturna che è la scrittura,
quella Kent Haruf sarebbe fra le mie preferite.
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