Se la colazione vale più di Tiffany: cinema e letteratura a confronto

 

Letteratura e Cinema sono amanti di vecchia data. Il loro rapporto mi ha sempre ricordato quello fra Rossella e Rhett in Via col vento (penso soprattutto alla versione cinematografica del 1939 con Clark Gable e Vivien Leigh): inevitabile e tumultuoso. Sono molti i casi di romanzi che hanno trovato la loro definitiva consacrazione grazie alla trasposizione cinematografica, riempiendo, nella mente dello spettatore, lo spazio lasciato dallo scrittore all’immaginazione del lettore. Se infatti prima del 1939, chi leggeva Via col Vento di Margareth Mitchell avrebbe potuto farsi un’idea personale della bizzosa, impaziente ed egocentrica Rossella (che poteva differire da quella stampata nella mente dell’autrice che all’epopea degli O’Hara aveva dedicato dieci anni di lavoro), dall’uscita del film, per tutti Rossella è divenuta la ‘fastidiosa’ brunetta dai boccoli corvini e dalle labbra carnose impersonata da Vivien Leigh. Se questo sia un bene o un male è tutto da dimostrare, ma ha aperto la via a iperboliche discussioni fra i sostenitori delle due arti. 

In questa decennale guerra delle due rose, merita un posto d’onore la trasposizione cinematografica di un romanzo di Truman Capote, ambientato a New York negli anni cinquanta, che racconta la storia di uno scrittore promettente che non è riuscito a mantenere le promesse e una ragazza dal carattere caleidoscopico che per rilassarsi va a fare colazione all’alba, in abito da sera, davanti alle vetrine di Tiffany. Parliamo di Colazione da Tiffany, romanzo che Truman Capote dà alle stampe nel 1958 e da cui, nel 1961 Blake Edwards trae il film omonimo che trasformerà la sua protagonista (Audrey Hepburn) in un’icona senza tempo, personificazione di una donna emancipata e anticonvenzionale che segnò un secolo. 


A distanza di più di cinquant’anni dall’uscita del film, si trovano richiami continui alla sua protagonista su riviste, poster, borse e campagne media a prescindere dalla latitudine e dal contesto culturale. Tutti abbiamo ben stampata in mente l’immagine di Audrey Hepburn che si muove dividendo la folla di sconosciuti che le riempiono casa con il suo lungo bocchino nero. Galleggia come se stesse passeggiando pensierosa in una biblioteca di notte e non in una folle festa che solo l’arrivo della polizia potrà sedare. Le donne di molte generazioni l’hanno ammirata e invidiata, senza mai riuscire a odiarla, desiderando solo essere come lei. 


Notizia di pochi giorni fa è che la Holly Golightly mania ha compiuto l’ennesimo salto generazionale e in un asta di Christie’s a Londra lo script di Colazione da Tiffany con le annotazioni di Audrey Hepburn è stato battuto per 630.000 sterline, sette volte il prezzo stimato prima dell’asta, contribuendo a far raggiungere alla più ampia esposizione e vendita di oggetti personali dell’attrice mai organizzata la somma di 4.600.000 sterline. E se lo script è andato in mani sconosciute, molti degli oggetti venduti sono stati acquistati da ventenni e trentenni di oggi, disposte a sborsare 500 sterline per un paio delle decine di scarpe ‘modello ballerina’ indossate da Audrey/Holly, dimostrando che lo stile Hepburn è ancora attuale a distanza di quasi sessant’anni. 



Merito a Capote per aver creato questo personaggio o dell’adattamento di Hollywood? La Holly di Colazione da Tiffany immaginata dall’autore di A sangue Freddo fu infatti pesantemente rimaneggiata da Blake Edwards perché fosse in linea con le aspettative del ‘grande pubblico’, con tanto di happy ending sotto la pioggia con gatto senza nome annesso. Scelta che Capote non gradì, avendo immaginato per la ‘sua’ Holly la separazione da Paul (lo scrittore in crisi coprotagonista del romanzo) e un viaggio per il Brasile in solitaria. Il pubblico di tre generazioni ha adorato il finale hollywoodiano, ma siamo proprio sicuri che l’happy ending sia un bisogno imprescindibile? E se anche lo fosse, non varrebbe la pena di provare a sorprenderlo questo ‘grande pubblico’? 




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