Se Jo Nesbø prova a riempire i ‘buchi’ di William Shakespeare

Vi abbiamo già parlato in passato dell’affascinante azzardo della  Hogarth Press 2.0: chiedere a autori contemporanei di riscrivere testi Shakespeariani. L’idea nasce nel 2012, quando il marchio della ‘nuova’ Hogarth (di proprietà del gigante editoriale Penguin – Random House) viene presentato a Londra come discendente dell’Hogarth Press fondata da Leonard e Virginia Woolf. La piccola casa editrice fondata nel 1917 che è riuscita in pochi anni a diventare il punto di riferimento di scrittori, saggisti e artisti della prima metà del Novecento, a cominciare dai membri del circolo culturale di Bloomsbury (oltre a Virginia Woolf, autori e artisti come E. M. ForsterLytton StracheyDuncan GrantDora Carrington e Vanessa Bell).


A distanza di 18 mesi dall’uscita della versione di Howard Jacobson de Il mercante di Venezia, viene pubblicata la riscrittura del Macbeth da parte del mago del thriller scandinavo Jo Nesbø. L’attesa era grande e le 446 pagine dell’edizione della Hogarth non sembrano tradire le aspettative. Nesbø sposta l’azione dalla Scozia dell’XI secolo a quella degli anni ’70 del XX secolo, scegliendo come setting per il ‘suo’ Macbeth una città (the Capitol) preda dell’alcolismo, del gioco d’azzardo e del traffico di droga, molto simile (anche se mai direttamente citata) alla Glasgow di quegli stessi anni. Un luogo che lo stesso Nesbø descrive costantemente coperto da una cappa di fuliggine e veleno: «the soot and the poison that lay like a costant lid of mist over the town», nel rispetto della più classica tradizione macbethiana. Nella storia ideata dallo scrittore scandinavo, Macbeth è un poliziotto di una squadra swat, Duncan è il capo della polizia e Malcom è il suo vice. La polizia è in guerra permanente con Ecate, non la regina delle streghe creata dal bardo, ma un oscuro signore della droga. Saranno proprio tre ‘scagnozze’ di Ecate a giocare il ruolo che fu delle streghe, tentando Macebth affinché prenda il posto di Duncan, lasciando alla loro ‘organizzazione’ campo libero per lo spaccio di una nuova droga: the brew (l’infuso). Non manca la Lady Macbeth di turno, nel romanzo di Nesbø semplicemente ‘Lady’, che fornisce al protagonista il piano per uccidere Duncan. L’effetto complessivo è affascinante, soprattutto per gli amanti del genere di cui Nesbø è maestro, e ci fa ricordare ancora una volta come in Shakespeare si possa trovare anche il progenitore del genere poliziesco


In un articolo del New York Times, James Shapiro, storico professore della Columbia University e uno dei massimi esperti viventi della poetica del bardo, ci ricorda che la prossimità di Shakespeare e in particolare del Macbeth al poliziesco è fatto noto. Già nel 1937 James Thurber pubblicò sul New Yorker un racconto dal titolo The Macbeth Murder Mystery (Il mistero dell’assassinio di Macbeth): la storia di un’appassionata lettrice di Agatha Cristie che compra una copia del Macbeth pensando sia un giallo e anche quando si rende conto che ha per le mani una ‘vetusta’ tragedia shakespeariana, non riesce a smettere di leggerla pur di sapere chi è il vero mandante dell’assassinio di Duncan. E se Shakespeare è stato insolitamente avaro su questo tema (possiamo dire con certezza chi ha fatto nascere nella mente di Macbeth l’idea di uccidere il suo re?), Nesbø sembra voler riempire tutti i buchi, almeno nella sua rivisitazione, e per farlo non esita a dilatare la storia, ordendo una trama così articolata da diventare un puzzle con cui i suoi ammiratori (al pari della lettrice della Cristie) non si sottrarranno, pur di conoscere tutti i retroscena che Shakespeare aveva deciso di omettere.


Ciò che resta, alla fine di questa spedizione made in Nesbø nelle viscere del bardo, è la sensazione, la stessa profonda e pervasiva che guida la versione originale della storia, che alla base di tutta la vicenda ci sia qualcosa di disperatamente malvagio che continua a pulsare in attesa del prossimo cuore dubbioso da occupare. 

Commenti

Post popolari in questo blog

Un giorno come questo di Peter Stamm

L’ansia di fare, sì, ma di chi è la colpa?

Nessuno, nemmeno la pioggia, ha così piccole mani