L’uomo non è un punto, ma una macchia, parola di Philip Roth


La copertina del primo libro di Philip Roth che ho comprato, la ricordo ancora. Un’edizione economica Einaudi, dove il candore che contraddistingue la casa editrice dello struzzo era interrotto da una foto sfocata di un uomo, in piedi, disperso in una landa artica in cui l’azzurro era predominante. Un azzurro dall’anima oscura. Il titolo del libro era La macchia umana, era così che mi sentivo anch’io a quel tempo: una macchia sfocata, ricolma di desideri che non osava tentare di realizzare, bisognosa di ottemperare alle innumerevoli attese altrui. Così raccolsi il libro da una muraglia di volumi e iniziai a leggere: “Fu nell’estate del 1998 che il mio vicino Coleman Silk – che prima di andare in pensione, due anni addietro, era stato per una ventina d’anni professore di lettere classiche al vicino Athena College, dove per altri sedici aveva fatto il preside di facoltà – mi confidò che all’età di settantun anni aveva una relazione con una donna delle pulizie trentaquattrenne che lavorava al college”. L’incipit mi riempì di incauto ottimismo: avevo tempo fino a settantun anni per giocare d’azzardo con la mia vita. Continuai a leggere fino a che la mano di un collega, con cui ci eravamo rifugiati in un desertico centro commerciale ai confini sud di Roma, ruppe la bolla in cui Philip Roth mi aveva risucchiato. Bisognava andare, la pausa pranzo stava finendo e dovevamo infilarci in una macchina parcheggiata sotto il sole di un inizio agosto per tornare nel nostro cubo di vetro e cemento nel mezzo della landa desolata che, nell’estate del 2003, separava la Cecchignola da Torricola. 


Il mio collega aveva bisogno di parlare, per quell’insana abitudine che hanno le persone di dover comunicare a ogni costo ai propri simili che non hanno nulla da dire. Aveva una voce squittente, capace di graffiarti lo stomaco ogni volta che pronunciava una ‘t’ o una ‘v’ e pronunciava molte ‘t’ e ‘v’. Il termometro dell’auto segnava una temperatura interna di 48° e non esiste definizione adeguata a descrivervi il torrente di sudore che scorreva incessante dalla mia nuca, tenuta in ostaggio da una cravatta di seta, alle mie caviglie, seviziate da un paio di calze di cotone alte fino al ginocchio. Eppure nessuna di queste vessazioni del corpo era paragonabile al dubbio che in quel momento mi divorava, un dubbio che aveva appena invertito il rassicurante pensiero che mi aveva portato a comprare quel maledetto romanzo: dove aveva trovato la forza un settantunenne per rischiare il biasimo collettivo pur di assecondare un suo desiderio? E se io non riuscivo a seguire il suo esempio a ventotto anni, come potevo pensare di farcela a settantuno? Non solo quel libro non mi avrebbe aiutato a sedare la mia ansia, ma l’avrebbe alimentata, fino all’autodistruzione. Dovevo liberarmene, ma non prima di averlo  letto. 



Fu così che entrai nella macchia più oscura e perfetta che uno scrittore può regalare a un lettore: uno stato di dubbio permanente. Un dubbio che non porta all’illuminazione, ma alla fuga, al conflitto, alla lotta con se stessi e alla fine al cambiamento. È grazie a questa fastidiosa sensazione che possiamo mettere e metterci in discussione, partendo dal mezzo preferito di Roth per esplorare la realtà: noi stessi. È attraverso Nathan Zuckerman, il personaggio che l’autore userà in altri otto romanzi oltre a La macchia umana, scrittore la cui carriera prosegue in parallelo a quella di Roth, che l’autore di Pastorale americana si mette (e ci mette) in discussione e lo fa così bene da farci credere che non ci sia di meglio al mondo. 


La macchia umana è una lettura che consiglio a chi vorrebbe vivere in un mondo fatto a sua immagine e somiglianza, dove tutto è chiaro e immediato: rapporti, emozioni, scelte, valori, risultati. Ogni evento viene analizzato, valutato e classificato in pochi secondi, senza bisogno di tornare sulle proprie decisioni. Chi ha un diverso punto di vista è semplicemente in errore e quindi ignorato. Oggi che la paura dell’incertezza trasforma gli italiani in assertori dogmatici di quanto viene offerto loro da una piattaforma che porta il nome di un uomo che fece del dubbio la linfa di molte sue opere (mettendo in discussione ciò che per gli altri era inattaccabile), è ancora più importante ricordare che l’uomo non è un punto, ma una macchia di idee e dubbi che si diffondono intorno a lui rifiutando ogni certezza. 

Buona lettura.



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