Ri-Svegliarsi negli anni ’20 insieme a Paolo Di Paolo

Le decadi, dice Hemingway, finiscono ogni dieci anni, mentre le epoche possono finire in qualsiasi momento”. 



Decidere da dove iniziare a parlare dell’ultimo lavoro di Paolo Di Paolo (Svegliarsi negli anni Venti. Il cambiamento, i sogni e le paure da un secolo all'altro – collana Strade Blu di Mondadori) è una sfida che mi ha costretto a rivedere l’incipit di questa recensione più e più volte, scegliendo prima una frase di Saul Bellow, poi una di Virginia Woolf, sostituita da Paul Valéry, fino alla citazione al quadrato che leggete, estratta direttamente dal ‘Paolo Di Paolo pensiero’. 
Nessuna però sembra cogliere appieno la chiave di lettura di questo libro, tanto che, alla fine, avevo deciso di eliminare la citazione e iniziare a raccontarvi quanto fosse complesso etichettare questo testo (un romanzo o un saggio?), parlandovi della sua capacità di raccontare il cambiamento che stiamo vivendo in questo tormentato primo ventennio del XXI secolo, del parallelismo con gli stessi due decenni del XX secolo, fino a soffermarmi sulla scelta di usare gli scrittori amati dall’autore (e i loro personaggi) come parafulmini emotivi, rabdomanti di quella lotta continua fra paura e eccitazione che gli esseri umani hanno sempre dovuto combattere alla fine di un’epoca. 

Tutte soluzioni decorose per uscire dall’empisse, ma se c’è una cosa che questo libro chiede al lettore è quella di mettere e mettersi in discussione, senza accettare la soluzione più scontata o comoda per allontanarsi da una frattura nell’ordine mentale in cui credevamo di vivere. L’improvvisa sensazione di estraneità che Svegliarsi negli anni Venti può far insorgere nei suoi lettori è un effetto collaterale della sua sete di conoscenza. Qualcosa sta cambiando, ci dicono gli imbonitori di presunta modernità futuristica da acquistare in piccole dosi su piattaforme di e-commerce, come se il futuro fosse qualcosa da cui immunizzarsi, come faceva Mitridate, il re del Ponto, assumendo piccole dosi di veleno per essere sicuro di resistere a ogni attacco dei nemici. E se questo cambiamento fossimo noi a realizzarlo con le nostre scelte?

fonte: https://www.francograssorevenueteam.com/

È per questo che non userò le soluzioni che ho prospettato per scrivere questa recensione e questo non vi piacerà. Non mi soffermerò sullo stile dell’autore, sulla solidità della narrazione o sulla ricercatezza linguistica che lo contraddistingue, né sull’attenta ricerca letteraria, storica e politica, che caratterizza, da sempre, le opere di questo autore. Se conoscete il lavoro di Paolo Di Paolo sapete già cosa vi potete aspettare, se non lo conoscete, non è per questo che dovreste avvicinarvi a Svegliarsi negli anni Venti.

Non fraintendetemi, sono motivi validi e non comuni per leggere le opere di Paolo Di Paolo, ma Svegliarsi negli anni Venti andrebbe letto perché materializza le domande che ci palleggiamo nella testa da anni, senza il coraggio di porcele. Ma a quanti intermediari politici, economici o social(i) potremo ricorrere, urlando la nostra rabbia contro l’ignoto (o il noto presunto), prima di capitolare?  Quante fake news a buon mercato, offerte per immunizzarci dal cambiamento, potremo ingurgitare, prima di fermarci a prendere fiato? Fino a quando dimenticheremo una delle capacità che nemmeno il COVID è riuscita a togliere a noi esseri umani (l’immaginazione)? Domande come: “Cosa accadrebbe se…?”, “Come mi comporterei se…?”, “Come reagirei a…?”, costeggiano il fiume narrativo di Paolo Di Paolo come argini al contrario, pronti a lanciare addosso al lettore schizzi di scelte passate e presenti che hanno effetti profondi sul nostro futuro, influenzandolo.  


In un’intervista con Luca Sofri a Bookcity, Di Paolo racconta di una strada di Parigi, Rue Crémieux, famosa per le sue casette basse dalle tinte pastello, in cui si affollano ‘instagrammari’ dell’ultima ora per realizzare la foto più estrema, cliccabile e ‘cuoricinabile’ del XXI secolo. Cos’è che li spinge? La necessità, insita negli esseri umani del XXI secolo (come nei loro predecessori del XX secolo), di lasciare un segno, di partecipare a un “esperimento collettivo inconsapevole di rappresentazione ossessiva e radicale di se stessi”. 

Vogliamo dimostrare di esserci e di saperci distinguere. Allora sfruttiamo questa spinta compulsiva al presenzialismo per creare un moto d’orgoglio sociale che ci porti a immaginare e disegnare il futuro in cui stiamo entrando, invece di accettare passivamente quello standardizzato, sottodimensionato e privo di responsabilità che la classe politica ci offre con tanta leggerezza. 

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