Il colpevole di cui abbiamo bisogno. Passeggiata nel bosco narrativo di Alessandro Piperno.

Di chi è la colpa? 

È attorno a una delle nostre domande preferite che Alessandro Piperno costruisce il suo ultimo romanzo (Di chi è la colpa – Mondadori). Quando qualcosa d’inatteso ci fa deviare dall’idea di noi stessi che vorremmo irradiare, che sia un fallimento professionale o personale, la perdita di uno status, la scomparsa di una persona cara su cui contavamo, questa domanda ci rimbalza nel cervello come una biglia d’acciaio in un flipper, alla spasmodica ricerca di qualcuno (diverso da noi stessi) a cui dare la colpa. Ne abbiamo bisogno per dare un senso alle nostre giornate e continuare a credere che la maschera che abbiamo scelto per presentarci al mondo sia l’unica possibile. 


 

È ciò che accade anche al protagonista senza nome di questo romanzo che da scrittore affermato ripercorre la sua vita in un mémoire che parte dalla sua infanzia in una qualsiasi famiglia romana piccolo-borghese per trovarsi catapultato, a causa di una serie di improvvidi eventi degni di un romanzo di Dickens, in una ricca ed esclusiva famiglia ebraica. Una tribù di personaggi sopra le righe, convinti che la loro parola sia l’unica degna di essere presa in considerazione, percorrono spavaldamente le giornate alla ricerca del piacere e delle soddisfazioni che soldi e status possono offrire. Una tribù a cui il protagonista vuole disperatamente appartenere, ma che allo stesso tempo sente estranea, perché non si riconosce in quell’assoluta mancanza di curiosità per gli altri che la caratterizza. 

 


Siamo di fronte a un alto tema che pervade Di chi è la colpa: lo snobismo. L’emblema è il capostipite della famiglia (Gianni Sacerdoti), un mix di virilità, charme, egocentrismo e sicurezza in se stesso che lo porta a ignorare o a disprezzare la massa di umanità che lo circonda. Perdenti che non possono concedersi un pranzo in un ristorante stellato o lo shopping compulsivo sulla Fifth Avenue a New York, umanoidi che parlano a bassa voce e vestono male, rumore di fondo ai margini della strada dorata che spetta alla famiglia Sacerdoti per diritto di nascita. 

 

E se il protagonista prova a convincersi che questa sia anche la sua strada, godendosi la “girandola di prime volte” che la sua nuova famiglia gli assicura (viaggi, lusso, libertà, spregiudicatezza), nel profondo combatte con l’idea che qualcuno possa sentirsi superiore agli altri, ritrovandosi a pensare “a quanto sarebbe migliore la vita se la gente non sentisse la stramaledetta esigenza di umiliarsi a vicenda”.  Questo conflitto interiore, in cui sembra riecheggiare l’idea proustiana dello snobismo (Proust sosteneva l’impossibilità di non essere snob: dai borghesi che snobbano gli aristocratici e la loro superbia, desiderando segretamente di diventare come loro, fino agli aristocratici che snobbano i borghesi perché inferiori, trattandoli con gentilezza che nasconde solo condiscendenza), intrappola anche il protagonista, che continua a trovare nelle colpe altrui continue giustificazioni al suo comportamento. 

 


Un discorso a parte merita la lingua usata da Piperno in questo romanzo. Se ricercatezza e precisione chirurgica sono da sempre gli anfitrioni della scrittura ‘piperniana’, in questo libro l’autore propone una lingua particolarmente ricercata, foriera di atmosfere vittoriane, permettendoci di riscoprire le ricchezze dell’italiano e di sfidare il nostro cervello a calarsi in una dimensione e in un ritmo narrativo diversi da quelli a cui siamo abituati. Settati sulle scelte narrative delle nostre serie Netflix preferite, potremmo trovarci in affanno davanti al flusso creato da Piperno in cui l’attesa per gli eventi viene dilatata dall’autore, ancóra e ancóra, permettendosi il lusso di creare continue giravolte di parentesi pur di offrirci ogni possibile sfaccettatura del pensiero del protagonista. Il consiglio è di non mollare, facendo riscoprire al nostro cervello il piacere di rallentare per gustare il banchetto narrativo che abbiamo a disposizione. E sebbene a volte Piperno si faccia prendere la mano da questo mood (ho trovato una parentesi di ben 6 pagine), godendo flaubertianamente della sonorità di un aggettivo o di un verbo a discapito del ritmo e della tensione narrativa, vi assicuro che arriverete alla fine di questo viaggio con quella sensazione di pienezza e meraviglia che si prova dopo aver scelto il sentiero meno battuto. 


articolo uscito su minima&moralia il 29 ottobre 2021

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