Se Tabucchi chiama Pirandello.

In questi giorni sfilacciati e unti, le parole sul palcoscenico dei media si rinchiudono le une nelle altre, divorandosi a vicenda, lasciando a terra solo carcasse di doveri e prospettive alla mercede di attori falliti (secondo alcuni giornali veri e propri clowns), che si rincorrono con gesti forti dall’alto delle loro torri, che altro non sono che un filare di sedie accatastate in un manicomio. E saranno anche i capitani eletti, ma di certo rimangono i più pazzi fra i pazzi e i più falliti fra i falliti, se pensano che la loro torre malferma resista al loro ego solo un attimo in più del loro avversario.


A questi signori, consiglierei una piccola e solida lettura, che possa far germogliare almeno un larvale e misconosciuto senso di colpa, che possa interrarlo e nutrirlo, affinché diventi il segno di una futura responsabilità, che alla fine qualcuno dovrà pur raccogliere. A questi clowns mezzi matti, offro una rappresentazione teatrale di un altro attore fallito. Sono sicuro che con un piccolo sforzo riusciranno a trovare il tempo di leggere le trenta pagine di pensiero puro e di domande necessarie conservate ne Il signor Pirandello è desiderato al telefono. Questo il titolo della pièce di Antonio Tabucchi, indagatore delicato e cocciuto dell’animo umano, di cui parlammo poco tempo fa anche su imago e di cui ricorre, proprio a marzo, il primo anniversario della scomparsa.


In questo testo un attore fallito tiene uno spettacolo in un ospedale psichiatrico portoghese nel 1935, accompagnato da un suonatore d’organetto sgangherato e da un coro di malati immobili, un popolo di matti, come noi, che hanno creduto nel tempo in questo o in quell’attore, come noi, e piano piano si sono spenti, tramutandosi in manichini, costretti per l’ennesima volta a partecipare a uno spettacolo che non hanno scelto, come noi. Ma a differenza del popolo italico, a loro è capitato un attore più matto che fallito, qualcuno che vuole ancora capire, cercare, qualcuno che ha deciso di interpretare non un capitano o un padrone, ma uno scrittore, peggio un poeta (Fernando António Nogueira Pessoa) e nei suoi pensieri si è mosso e ha cercato e al suo pubblico, che a questo richiamo ha risposto, ha mostrato cosa vuol dire vivere in un “mondo plurale”, un mondo in cui di torri di sedie instabili ce ne possono essere milioni e persino di migliori.


Il gioco esige smorfie di sorriso; ma abbiamo veduto
La luna in vicoli solitari fare
Un graal di riso d'una pattumiera vuota,
E tra ogni voce d'allegrezza e questua
Udito un micio miagolare nel deserto.

(estratto dalla poesia Chaplinesue  di Hart Crane)


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