una parola, un verso: trentatreesima - unico...figlio
Cosa vuol
dire essere figli unici?
Essere
unici perché “speciali” o unici solo perché appartenenti a una determinata specie?
Le opinioni
in materia si sprecano e certamente in Italia prevale l’idea che essere figlio
unico voglia dire essere viziato, solitario, silenzioso, supponente,
introverso. E quest’ultima caratteristica soprattutto è vista con terrore dai
genitori, un destino da evitare a qualunque costo, pur di rispettare
l’equazione socialità = felicità che ci viene imposta fin dai
primi sbilenchi passi nel mondo.
Equazione che si ribalta in altre equivalenze:
silenzio/riflessione/pensiero/sensibilità = tristezza, da cui aggressività/chiasso/azione
= felicità/intelligenza.
Piccole massime distillate parlando con
genitori ansiosi.
Sul tema
dell’unicità, intesa come diversità, è incentrato il romanzo di Haruki Murakami,
appena ripubblicato in Italia con Einaudi (ma edito nel 1992 in Giappone e
la prima volta in Italia con Feltrinelli nel 2000) A sud del confine, a ovest del sole (Einaudi – 2013). Nel primo capitolo il protagonista, Hajime,
inizia a raccontarsi, partendo proprio dalla sua unicità, primo e ultimo figlio
di una famiglia borghese nel Giappone degli anni ’50, periodo in cui essere
figlio unico era cosa abbastanza rara e non solo in Giappone.
A dodici
anni Hajime si sente diverso, «un essere incompleto»[1],
un bambino che ascolta Nat King Cole che canta Pretend insieme a
un’altra figlia unica. L’unica con cui può condividere la sua diversità,
per sentirsi finalmente uguale a qualcuno, anche solo per la durata di una
canzone, una canzone che spiega che «fingere di essere felici quando si è
tristi non è poi un grande sforzo»[2].
Finite le note della canzone e con esse il primo capitolo del romanzo di
Murakami, ci siamo già sistemati sulle spalle di Hajime e non intendiamo
scendere fino alla fine del racconto per «attivare quel territorio dello
spirito che nella vita quotidiana non viene usato»[3]
e che Murakami sa così bene fertilizzare dentro i nostri pensieri. E se
l’autore non delude i suoi lettori, offrendo anche in questo romanzo tutta una
serie di soffuse «vibrazioni che sono capaci di diventare l’asse portante del
racconto»[4],
dimostrando come grandi emozioni possano nascondersi nelle piccole cose
(pensiamo alla poesia di Wisława Szymborska che spesso Murakami ha il potere di
richiamare alla mia mente), in A sud del confine, a ovest del sole
l’onirico lascia molto più spazio al reale; alla reale insoddisfazione
incardinata nell'animo umano, che ci porta a desiderare un "qualcosa" che poteva
essere e non è stato, costruendo su questa malinconia una torre di rabbia da
cui è facile lanciare le persone che ci sono accanto e che hanno la colpa di
essere difformi dai nostri sogni.
Così
Murakami ci dimostra di essere tutti figli unici, indipendentemente dall’aggressività/chiasso/azione
che abbiamo dimostrato e, sebbene il tema del figlio unico sembri a volte
eccessivamente presente e claustrofobico, andando a saturare dinamiche e
dialoghi fra i personaggi, bastano alcune immagini per dimostrare da sole il
valore del libro, che alla fine pur essendo partito dall'apparente certezza socialità
= felicità, ne dimostra chiaramente l’inadeguatezza e la debolezza.
Una
parola, un verso: unico...figlio
ùnico agg. [dal lat. unĭcus, der. di unus
«uno, uno solo»] (pl. m. -ci).
a. Che è il
solo esistente, che non ha uguali nel suo genere o nella sua specie; b. In
frasi enfatiche, eccellente, ineguagliabile; c. Nel linguaggio filosofico, per
lo più sostantivato, l’individuo o soggetto personale, o io, in quanto
singolare, irripetibile, inconfondibile, eccezionale.
unigènito agg. [dal lat. tardo, eccles., unigenĭtus,
comp. di uni-
«uno solo» e genĭtus, part. pass. di gignĕre «generare»]. – Che è l’unico generato,
l’unico figlio;
(fonte: www.treccani.it)
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