Il giusto protagonista: la scelta di Douglas Coupland
Scrivere un romanzo epistolare ai nostri giorni sembra un’impresa impossibile.
Questa forma narrativa ci fa pensare ai grandi romanzi del Settecento (penso a Le relazioni pericolose di Choderlos de Laclos) o del Novecento (L’età dell’innocenza di Edith Wharton), per non parlare dei cartoni animati anni’80 come Lady Oscar. Immagineremo mani pallide e morbide, mentre, parzialmente coperte dal candido pizzo del polsino della camicia che sbuffa dalla giacca, sono impegnate a chiudere lettere scritte con la penna d’oca su carta spessa, per poi sigillare il tutto con ceralacca e fremiti da passione negata.
Beh, non affezionatevi troppo a tale leggiadra amabilità e nemmeno a tali personaggi. Anche perché nel caso del libro di cui stiamo per parlare passione, vendetta e orgoglio non sono al centro della storia, bensì è l’incomunicabilità fra gli esseri umani a essere dimostrata, combattuta e attaccata dai personaggi creati da Douglas Coupland e dal suo Il ladro di gomme, romanzo rintanato nelle nostre librerie nell’angolo dedicato ai piccoli editori. E voi? Se doveste scrivere una storia sull’incomunicabilità fra gli esseri umani con la struttura di un romanzo epistolare chi usereste come protagonista?
Un ragazzino pensoso e assorto che viene costantemente ferito dall’aggressività del mondo cui continua a opporre la sua inviolabile integrità o un quarantenne alcolizzato che scenderebbe a qualsiasi compromesso pur di scappare dalla propria vita?
Se avete scelto la prima ipotesi avete sbagliato.
Il romanzo di Coupland sembra un’antica città su cui si sono stratificati negli anni tutte le idiosincrasie e le paure del protagonista che non parla più con nessuno, non perché non sia interessato a comunicare con gli altri, ma proprio perché ha bisogno di una vera comunicazione.
È come se, a differenza di “tutti gli altri”, Roger (questo il nome del protagonista del romanzo di Coupland) non si fosse arreso a parlare senza dire, a comporre pensieri di cui nessuno s’interesserà mai. Roger non cede, Preferisce tenersi tutto dentro e parlare in maniera asincrona con l’ipotetico lettore del taccuino cui affida le sue paure, le sue recriminazioni e i suoi desideri. Se la comunicazione non è contemporanea, se l’ascoltatore non è li, con lui, nel momento in cui esprime i suoi pensieri, allora c’è qualche speranza di essere realmente ascoltato. È per questo Roger scrive tutto quello che sente in un taccuino e lo lascia al lavoro, lì dove potrà essere trovato da qualcuno che Roger sente simile a lui, qualcuno che leggerà le sue idee, provando a capirle.
Roger è quindi un romantico di prim’ordine. Non si piega dove decine di ragazzini pensosi avrebbero già buttato la spugna ed è per questo che il lettore gli si affeziona. E quando una sua collega di lavoro (Bethany) trova il taccuino e lo legge e inizia a dialogare con lui usando la stessa modalità asincrona di comunicazione (non si parleranno mai direttamente, ma solo attraverso un sistema epistolare) tifiamo per loro. Perché quella sensazione di enorme vuoto contro cui dibattiamo, quella consapevolezza scacciata di inutilità del tempo che impieghiamo, diventa sempre più forte e feroce con il passare degli anni e ci fa sentire come i vermi del racconto di Stefano Benni Lombritticoetica, che, davanti alla paura di essere mangiati dal pesce, reagiscono a modo loro (accelerando o tentando di rallentare la propria fine), ma tutti sono in cerca di in un intervento esterno che li salvi dal loro amo o che gli spieghi almeno il perché di quel destino.
Certo, non tutti i vermi accetteranno la risposta che alla fine troveranno in se stessi, se avranno la necessità di scavare, ma avranno almeno compreso se la loro anima è ancora lì o è stata rilasciata su cauzione perché hanno superato la soglia minima di decenza barando all’ultima partita di minigolf. Come dice Roger «Credo che nessuno superi niente nella vita. Ci si abitua e basta.»
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