La terra dei narcos e la fiducia di Anabel Hernandez
Intervistare Anabel Hernandez non
vuol dire solo entrare con la migliore guida possibile ne La terra dei narcos (titolo del romanzo-reportage che ha reso
pubblico il sistema di corruzione messicano legato ai cartelli della droga), ma
conoscere una donna che ha fatto della fiducia nella sua gente il fulcro di
tutte le sue battaglie. Nell’albergo romano dei Parioli in cui la incontro,
Anabel sembra sentirsi fuori posto quanto me, seduta su uno scomodissimo e
fastosissimo divano damascato in una sala dalle pareti scure e dalle luci
troppo gialle. Indossa una camicia di seta bianca che serve a isolarle gli
occhi dall’ambiente esterno. Grandi e costantemente spalancati nel tentativo di
capire esattamente cosa ci fosse dietro ogni sfumatura del mio italiano e se la
mia domanda, che si agganciava alla sua risposta precedente in una spirale
inarrestabile, avesse centrato un punto di vista che lei non aveva ancora
analizzato.
La
terra dei narcos fa pensare
a un reportage fotografico di Cartier-Bresson, perché offre ai lettori un punto
di vista “altro” rispetto a quello dominante, riuscendo a far percepire i
personaggi che vengono descritti più vicini di qualsiasi reportage
giornalistico mai realizzato. Mi piacerebbe sapere dall’autrice se questo è
stato il suo obiettivo fin dall’inizio di questo progetto.
Mi fa molto piacere che tu abbia
percepito questo taglio narrativo con tale chiarezza. È esattamente così che
l’avevo pensato. Qualche anno dopo l’inizio del mio reportage (ho iniziato a
scrivere il libro nel 2005) cominciarono a uscire molti libri sul narcotraffico
e la casa editrice, la Random House, mi faceva molta pressione perché arrivassi
a un testo definitivo al più presto. Ma non ero ancora pronta, perché non
volevo dare l’immagine del narcotraffico che tutti offrivano alla popolazione,
quella che il governo e i narcotrafficanti stessi avrebbero gradito. Non volevo
che si pensasse che non c’era una soluzione. Rendere i personaggi concreti,
vicini era un modo per farli vedere alla gente per quello che sono. Potenti, ma
non invincibili.
Nel suo libro si parla delle persone che attendono una soluzione, persone
che sono anche stanche di tanta violenza e rischiano di rinunciare. Pensa che
l’impatto mediatico che ha avuto La terra
dei narcos possa evitare che ciò accada?
So che un libro non può fare la
differenza. Ma ci sono alcune cose che il mio libro ha contribuito a
realizzare. Prima di tutto persone che fino all’uscita del mio libro erano
considerate intoccabili, sono state chiamate in causa, con nomi e cognomi. Nomi
che prima si sussurravano soltanto, nessuno osava nominarli ad alta voce, la
gente sapeva, ma aveva paura. Oggi la gente ne parla ad alta voce, apertamente.
Nel mio libro denuncio la corruzione che è al potere nel momento in cui scrivo,
perché una cosa è parlare della corruzione passata, ben diverso è avere il
coraggio di confrontarsi con la corruzione del presente. Quando ho pubblicato
il mio libro, molti esponenti della polizia erano corrotti e potenti, potevano
sequestrare, uccidere, complottare con i signori della droga a loro piacimento.
Il capo della polizia García Luna era arrivato a un tale livello di potere da
ritenersi intoccabile. Bene, ho dimostrato che non era così. Che si poteva
denunciare e rendere pubblico ciò che stava facendo. Tutto questo è stato fatto
da una donna della classe media, senza alcun appoggio politico. Quando la gente
ha visto che una donna normale come me poteva fare questo, ha capito che era
possibile smettere di avere paura.
Ha avuto effetti questa inchiesta a livello legale? La magistratura
messicana si è mossa?
No, purtroppo non è accaduto
nulla. Il potere che io ho messo in discussione era il più alto esistente in
Messico, quello del Presidente della Repubblica. Certo, ci sono state altre
denunce e sono venute alla luce altre storie che confermavano la mia versione
dei fatti. Questo ha dato una forte consapevolezza ai messicani del sistema d’impunità
che vige nel nostro paese e la consapevolezza è il primo passo per la
rivendicazione.
Nell’introduzione alla traduzione italiana del suo libro edito da
Mondadori, Roberto Saviano afferma che La
terra dei narcos scardina un paradigma. Prima si pensava che il sistema
mafioso si fosse trasformato in una nuova forma di capitalismo, mentre lei
dimostra che è il capitalismo a essere diventato un sistema mafioso. È proprio
così?
Sì, definitivamente. L’attuale
situazione del Messico non nasce dal narcotraffico, ma dal sistema politico ed
economico che a un certo punto ha colluso con il narcotraffico. Questo ha reso
il narcotraffico molto più potente, perché parte integrante del sistema. C’è
uno scrittore che ha riassunto il mio libro in una sola frase: «dopo aver letto
La terra dei Narcos, ho capito che El
Chapo Guzman e gli altri capi dei cartelli della droga sono meno pericolosi del
sistema che li protegge».
Uno dei primi reportage che l’ha fatta conoscere al grande pubblico è
stato il towelgate, in cui ha
denunciato lo sperpero di denaro pubblico da parte dell’allora presidente del
Messico, Vincente Fox, partendo da un “piccolo” caso di corruzione per
l’approvvigionamento della residenza presidenziale. Prima di quel reportage in
pochi avevano osato attaccare Fox e forse mai così direttamente. Cosa frena i giornalisti
messicani a fare questo tipo di indagini? E che reazione ha avuto il sistema di
potere che ha attaccato?
La cultura di denuncia
giornalistica in Messico non riteneva reale, prima di questi reportage, la
possibilità di attaccare o criticare i rappresentanti del governo mentre erano
ancora in carica. Era davvero molto difficile che accadesse. La reazione del Presidente al mio reportage fu
molto aggressiva, mi accusò pubblicamente di far parte di una macchinazione per
destituirlo. I sei anni di governo di Fox furono molto difficili per me, perché
ci fu una pressione continua al mio giornale perché fossi messa da parte. In
realtà la pubblicazione di quel reportage servì a farmi ottenere altre
informazioni sulla gestione di Fox, grazie alle quali potei far conoscere alla
gente nuove storie di corruzione.
Ho letto che ha deciso di fare la
giornalista quando ha assistito
agli effetti del terremoto di Loma Prieta del 1989 e al lavoro svolto dai
reporter, non solo nell’informare la popolazione sugli eventi, ma anche
nell’aiutare le famiglie delle persone coinvolte dal sisma a ritrovarsi. Sono
passati più di venticinque anni da quell’epifania e oggi il giornalismo è
caratterizzato da una violenta aggressività, da un’invidia dilagante fra
colleghi e dalla tentazione di essere la notizia, più che di presentarla. C’è
il pericolo di perderla del tutto?
Io credo che il giornalismo sia
una fiera delle vanità, dove l’ego del giornalista è sempre presente e a volte
dilagante. Lavoro come giornalista da vent’anni e questa tentazione è sempre
esistita, ma il giornalismo senza piedi per terra non esiste. Sono molto a disagio quando durante le
interviste, si passa dalla storia della corruzione che presento nel mio libro
alla mia storia personale, non è di quello che dovrebbe parlare la gente, anche
se comprendo la tentazione. In questo periodo in Messico sono molto di moda le telenovelas sul narcotraffico e un
canale mi ha proposto di scriverne una sulla mia vita, il che ovviamente è assurdo.
Non ho scritto il mio libro per questo.
Qualche giorno fa leggevo un’intervista a un vignettista satirico russo
che raccontava come non sia più possibile lavorare nel giornalismo in Russia,
dove la censura formale o informale è onnipresente. Questo accade per la
mancanza di equilibrio fra il Presidente e gli altri poteri dello stato. Pensa
che questo sia un problema anche in Messico?
Il sistema russo ha un presidente
che è al di sopra di tutto, dei partiti politici, della magistratura, della
mafia, è paragonabile a una dittatura. In Messico abbiamo un presidente che
secondo la legge dovrebbe avere un potere assoluto, ma non ne ha alcuno. Certo,
può contenere e portare al silenzio la stampa con la corruzione, può utilizzare
la leva dell’esercito, ma è talmente dipendente dal sistema di favori che deve
alla polizia, all’esercito, agli imprenditori che l’hanno portato dov’è, da
essere costretto a lasciarli decidere come vogliono agire. È una marionetta. Quando
lo scorso luglio l’esercito ha fucilato 21 persone e ha tentato di nascondere
la cosa, non credo che sia stato un
ordine presidenziale, perché sarebbe stato come spararsi un colpo in testa
davanti all’opinione pubblica. E allora perché l’hanno fatto? Perché l’esercito
può fare ciò che vuole e così gli altri poteri forti del paese.
Se lei fosse a capo del suo paese cosa farebbe per cambiare la
situazione?
Abbiamo bisogno di un governo che
dia potere alla società, alla gente, mentre abbiamo un governo che dà potere a
molti e non alla società. Un governo che non lavora. La domanda che poni è
difficile. Il cambiamento deve venire dalla società. È la gente che deve
esigere un governo che lavori nel suo interesse. Servirebbero quindi più
proteste, molte più manifestazioni di quelle che ci sono state fino ad ora.
E queste proteste non avvengono perché le persone hanno paura, perché
sono rassegnate, perché non sono abbastanza informate su ciò che accade?
Penso che ciò che li ferma sia la
paura. A differenza di altri paesi in crisi, in Messico è molto difficile
capire quale sia il nemico. Siamo tutti contro tutti. Esistono gli imprenditori
che offrono ai loro dipendenti salari da fame e non pagano le tasse, abbiamo
politici che sono amici dei narcotrafficanti, abbiamo narcotrafficanti che
finanziano le campagne elettorali. Tutto questo costituisce un circuito chiuso
che sovrasta la società.
Ho letto che ha dovuto lasciare il Messico per gli Stati Uniti per
motivi di sicurezza. Pensa e spera di poter ritornare a lavorare in Messico a
breve?
Un commando armato è entrato nel
2013 nella mia casa, fortunatamente ero fuori dal Messico in quel periodo.
Allora mi posi la domanda se tornare o meno nel mio paese. Decisi che quando avrei lasciato il
Messico sarebbe stata una mia decisione e così tornai a casa. I mesi che sono
seguiti a quell’evento sono stati molto difficili. Il governo diceva di darmi
una protezione che in realtà non mi offriva. Così ho cercato di organizzare nel
modo giusto la mia partenza dal Messico, per non dare il messaggio sbagliato
anche ai colleghi che avevano cominciato a seguire altre piste legate alla
corruzione. La mia partenza non voleva
dire che avevo rinunciato. Trasferirsi negli Stati Uniti mi ha consentito di
continuare a investigare sul Messico, lavorando a una nuova indagine, che
porterà presto alla pubblicazione di un altro libro, riuscendo allo stesso
tempo a tutelare la mia famiglia.
Ringraziamo Anabel Hernandez per il tempo che ci ha dedicato e per la
fiducia nella gente che ci ha infuso e che proprio in lei, per ciò che ha visto
e denunciato, poteva vacillare.
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