Basta una città in fiamme a far sbandare un mercato editoriale?
Ci siamo: il 16
febbraio uscirà anche in Italia Città in
fiamme di Garth Risk Hallberg. La città in questione è New York e di questo
libro si è iniziato a parlare ben prima della sua pubblicazione in USA lo
scorso ottobre con la casa editrice Knopf.
Tutto è cominciato
nel 2013, con un’asta per i diritti di questo mastodontico romanzo di 997
pagine di un autore sconosciuto che insegna scrittura creativa al Sarah
Lawrence College, asta che è arrivata alla cifra di 2 milioni di dollari,
trasformando Città in fiamme nel caso
letterario dell’anno ben prima che fosse possibile leggerlo. Se è vero che a dicembre
2015 il Guardian pubblicava un
articolo che ci dimostrava che dal 1999 a oggi i romanzi in lingua inglese
diventati best seller sono il 25% più lunghi dei loro predecessori, è ancor più vero
che i casi più osannati sono i cosiddetti romanzi seriali (After e sfumature varie in testa) con pochi personaggi ben definiti,
le cui storie si intrecciano all’infinito replicando situazioni e relazioni, in
una sorta di tiepido limbo narrativo senza scossoni che punta a rassicurare il
lettore offrendogli esattamente ciò che si aspetta.
Garth Risk Hallberg |
Città in fiamme di Hallberg però non sembra seguire
questo schema. Inizia con un delitto nell’ultima notte del 1976, ma non è
giallo, verbalizza il flusso di pensiero dei suoi personaggi arrischiandosi a
offrire in ogni capitolo un punto di vista diverso, ma non è un romanzo
piscologico; si dilunga in pagine e pagine di particolari sui movimenti punk
nella New York anni’70, sul sesso libero, il Vietnam e le proteste violente che
divampano nella città, ma non è un romanzo storico o dallo sfondo sociale. È lo stesso Hallberg che in un’intervista
rivela al Guardian che non è
semplice definire la sua opera e nei primi quattro anni in cui vi si è dedicato
«mi sembrava di avere fra le mani qualcosa di davvero impubblicabile». Paragonato
a Donna Tartt e a Marlon James, Hallberg ritiene che molta della fortuna della
sua opera dipenda dalla volontà insana di «lavorare a qualcosa di impossibile»,
senza pensare a quante persone stavano tentando un esperimento come il suo e a
quanti romanzi sarebbero usciti in contemporanea parlando di omicidi, New York
o i mitici anni settanta.
Michiko Kakutani, temibile critica del New York Times, ha definito Città in fiamme: «a stunning first novel
and an amazing virtual reality machine» (un’inattesa e meravigliosa opera prima
e una splendida macchina per la realtà virtuale), incitando i suoi lettori a
non lasciarsi scappare le mille pagine di Hallberg che riescono a riprodurre
(pur se l’autore non l’ha vissuta) il feeling della New York anni ’70 con una
«bravura» (Kakutani usa proprio questo termine in italiano) che fa pensare a
scrittori come Fitzgerald, Salinger, Price e Dickens.
Le critiche
positive non si contano e qualche giorno fa Paolo Giordano, su La Lettura, in preparazione dell’uscita
dell’edizione italiana di Città in fiamme
per Mondadori, lodava l’abilità camaleontica di Hallberg, capace di saltare
da uno stile narrativo all’altro senza oscillazioni, inondandoci di personaggi,
cui riesce ad aderire «così tanto da poterne riportate agilmente il flusso di
pensieri».
Paolo Giordano |
Per fortuna qualche
voce dissonante c’è, penso a Louis Menand sul New
Yorker, che condivide
l’idea originale di Hallberg dell’“impubblicabilità” dell’opera, sostenendo che
il romanzo ha almeno quattrocento pagine di troppo dovute all’eccesso di
dettaglio e di parentesi che l’autore si concede, non pensando al povero
lettore.
A questo punto la
domanda che serberemo fino a quando non avremo il coraggio di sollevare le 997
pagine di Hallberg sarà: basta davvero una città in fiamme a far sbandare un
mercato editoriale?
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