Una gigantesca minoranza
Il poeta spagnolo Juan Ramón Jiménez Mantecón si definì parte di «una gigantesca minoranza» capace di vivere in due direzioni: osservare davvero chi si ha di fronte e ricambiarne il pensiero. Qualche giorno fa è capitato anche a me.
Zona Quarto Oggiaro, periferia nord di Milano, più di 50.000 abitanti, spaccio, garage che si dedicano industriosamente allo smontaggio dei motorini rubati, baby gang, persone senza fissa dimora, ma anche case popolari, cinque parrocchie, una moschea, alcune ONLUS e una vecchia scuola in via Mambretti.
È in questo luogo che il Progetto Arca ha creato un centro di accoglienza notturna per chi non ha un luogo dove dormire, dove mangiare, dove continuare a sentirsi “reale”: una persona come me e voi, una persona che ha ancora il diritto di fare delle domande, di aspettarsi delle cose, di sedersi vicino a un suo simile e ascoltare un po’ di musica condividendo un auricolare.
Mentre le persone mi scorrevano davanti e io chiedevo cosa desiderassero mangiare, osservavo i loro volti, le loro mani, i loro occhi, quest’ultimi proprio non volevano concedermeli. Era lì che avevano risucchiato la loro storia.
Non potevo fare a meno di guardarli, con quel senso di pudore e vergogna di chi invade uno spazio altrui, di chi si trova a osservare quello che a lui non è accaduto e, in fondo, a sentirsi grato per non essere costretto a mettersi in fila ogni sera per il lusso di un pasto. Li guardavo: uomini (perché il 75% dei senza fissa dimora sono uomini), donne, anziani, ragazzi, intere famiglie o soltanto frammenti di esse, che si agganciavano fra loro per immaginarsi ancora una cosa sola. Li guardavo e sorridevo mentre porgevo loro il piatto, forzando la mia ritrosia a esporsi.
Cercavo di parlare con loro, di fargli capire che potevamo essere due persone qualsiasi che si erano ritrovate sedute vicine al bar per un caffè per scambiare un commento stupido sulla politica, il calcio, le tasse. Li guardavo, cercando di fargli capire che avevo scoperto la loro gigantesca minoranza quella sera e che mi sarei voluto unire a loro, solo per qualche ora. Ma non eravamo in un bar e non eravamo dalla stessa parte del bancone.
Non conoscevo i loro nomi, così li ho creati: l’uomo dente, che ha sorriso in fila per tutto il tempo, con quei suoi canini accecanti; la donna cipolla, con i suoi capelli lunghi, fieno calpestato, raccolti in una grande crocchia sopra la testa; il ragazzo cuffiette, che non ha emesso un fiato, oscillando la testa come un metronomo stanco per tutto il tempo; l’uomo barba, con un fascio di rami secchi grigi appiccicati al mento e il ragazzo molla, che ha saltellato intorno al banco per la distribuzione dei pasti senza riuscire a prendere nulla.
Mi illudo descrivendoli di averli conosciuti, almeno un po’, ma li ho solo creati migliori, diversi da quello che sono, per acquietare il senso di ingiustizia che mi spaccava dentro, la domanda che mi sibilava dentro: "cosa li distingue da me?"
Risposta: "nulla, solo il caso."
«Quello che voi siete io ero, quello che sono ora voi sarete.» L’uomo dalle sopracciglia d’aquila mi ha fermato e mi ha detto questa frase: «una volta, era questo che si scriveva sulle lapidi al cimitero e vale anche per quello che sono ora. È una fase, un tempo ero lì fra di voi e guardavo un me che non c’era ancora.»
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